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mardi, 02 octobre 2018

Terra Sarda: il mediterraneo metafisico di Ernst Jünger

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Terra Sarda: il mediterraneo metafisico di Ernst Jünger

Andrea Scarabelli

Ex: http://ilgiornale.it/scarabelli

«Insel, insula, isola, Eiland – parole che nominano un segreto, un che di separato e conchiuso»: Ernst Jünger scrisse queste parole a Carloforte. Vi era giunto per la prima volta nel 1955, passando dall’isola di Sant’Antioco, attratto dalla presenza di un insetto che vive solo lì, la Cicindela campestris saphyrina. Le sue impressioni sull’isola sono riportate nel saggio San Pietro (1957), uscito in italiano nel 2015 nella traduzione di Alessandra Iadicicco. Entomologia a parte, era rimasto folgorato dal luogo, trascorrendovi le vacanze fino al 1978, all’età di ottantatré anni. Jünger era un amante delle isole, e i suoi diari (molti dei quali, purtroppo, ancora inediti da noi) stanno a dimostrarlo; del bacino mediterraneo amava soprattutto Sicilia e Sardegna. Il fascino esercitato dalle isole risale all’inizio dei tempi. Per caratteri come quello di Jünger, ogni isola è beata, nel senso di Esiodo (Le opere e i giorni): «Sulle isole beate, presso il profondo gorgo dell’oceano, vivono gli eroi felici col cuore libero da affanni. La terra feconda offre loro il frutto del miele che matura tre volte nell’anno». Anche D. H. Lawrence, tra i molti altri, era stato in Sardegna, precisamente nell’estate del 1921, assieme alla moglie Frieda. Vi era giunto da Taormina e aveva visitato Cagliari, Mandas e Nuoro. Nel suo libro Mare e Sardegna, contenente il racconto di questo viaggio, riporta un’ottima definizione di insulomania, il male di cui soffre chi prova un’attrazione irresistibile verso le isole. «Questi insulomani nati sono diretti discendenti degli Atlantidi e il loro subcosciente anela all’esistenza insulare». Una diagnosi che si attaglia alla perfezione a Jünger, amante del mare e di ciò che il mare circonda, separandolo dalla terraferma.

terrasa.jpgCome già detto, il futuro Premio Goethe approda a Carloforte nel 1955, ma il suo primo contatto con la Sardegna risale all’anno precedente. Il diario del suo mese trascorso nel piccolo villaggio di Villasimius è uscito in varie edizioni, con il titolo Presso la torre saracena. Tradotto – magistralmente – da Quirino Principe, verrà inserito insieme agli altri “scritti sardi” ne Il contemplatore solitario (Guanda, 2000) e in Terra sarda (Il Maestrale, 1999).

Ecco l’itinerario di quel primo viaggio: partito da Civitavecchia la sera del 6 maggio 1954, il Nostro arriva al porto di Olbia alle prime ore del mattino. Raggiunta Cagliari in treno, un paio d’ore di autobus lo separano da Villasimius (nel diario indicata come Illador): un percorso accidentato, su strade malmesse. Poche case coloniche, il piccolo borgo di Solanas. Dietro a ogni tornante si squadernano panorami mozzafiato, con un mare color zaffiro. Fin da subito capisce di trovarsi in un luogo tagliato fuori dalla civiltà, anche per via di un’epidemia di malaria e una carestia che fino a quel momento hanno reso Villasimius impermeabile al turismo di massa. Ancora per poco, però: proprio nei giorni della sua residenza, gli operai stanno collocando la rete elettrica, dando così il via alla modernizzazione della cittadina, che si concluderà con l’invasione di televisioni, radio, cinema, traffico, caos… La tecnica giungerà, livellando ogni differenza tra sessi e generazioni, demolendo una cultura millenaria e andando a costituire quel brodo di coltura grazie a cui la modernità trionferà anche a Illador. Ma in quel momento di tutto ciò non c’è ancora traccia. La cittadina si trova a un crocevia, e lo scrittore ha modo di fotografarla per quel che fu, «un luogo più cosmico che terrestre, lontano dal mondo». In realtà queste parole sono riferite a Carloforte, ma potrebbero estendersi alla Villasimius di allora, anzi alla Sardegna tutta, che in qualche modo agì su di lui come un «detonatore di emozioni», secondo la definizione di Stenio Solinas, che ha firmato l’introduzione a San Pietro.

Crocevia per la Sardegna, gli anni Cinquanta lo sono anche per Jünger: dopo aver visto l’Europa messa a ferro e fuoco dalle forze scatenate della tecnica, che aveva in qualche modo celebrato nel suo Der Arbeiter, agli inizi degli anni Trenta, il suo sguardo muta radicalmente, dando vita a opere come Il trattato del ribelle, che esce nel 1951, e soprattutto Il libro dell’orologio a polvere, pubblicato lo stesso anno di quel suo primo viaggio sardo. Se il primo è l’invito a riparare in un bosco del tutto interiore, al riparo dalle barbarie della tecnica e della tirannide, l’ultimo è uno studio comparato dedicato agli orologi naturali (clessidre, meridiane, gnomoni e così via) e a quelli meccanici, insieme alle nozioni di tempo che veicolano. Così come c’è un tempo storico, scandito dagli orologi meccanici, ce n’è anche uno cosmico, misurato dalle ombre proiettate dal sole e dall’affastellarsi dei chicchi di grano nelle clessidre. Sarà questa compresenza, come vedremo, a scandire il suo primo soggiorno sardo.

Torniamo alla Villasimius degli anni Cinquanta, la cui case sono ancora illuminate da candele, una cittadina semi-diroccata circondata da immense spiagge deserte e torri in rovina, i cui ospiti non sono miliardari o attricette o parvenu ma pastori, elettricisti, ciabattini e pescatori, insieme a impiegati statali trasferiti lì per qualche oscuro regolamento di conti burocratico. In loro compagnia, annoterà in San Pietro,

«L’uomo della terraferma viene trattato con una benevola superiorità. Gli manca quell’impronta degli elementi che qui ha lasciato il suo segno».

Saranno queste figure semplici, dalla pelle coriacea battuta dal Sole e saggiata dal vento, i compagni di quelle lunghe giornate, anche perché il protagonista della nostra storia si è guardato bene dal portarsi dietro un libro, un giornale o una compagnia umana. Ama stare con la gente comune e partecipa a feste e banchetti, cene e battute di caccia, passeggiate e sessioni di pesca, ben sapendo che è possibile studiare un luogo anche senza orpelli letterario-filosofici. La pensione in cui alloggia – gestita da una certa Signora Bonaria – diventa così il teatro d’interminabili discussioni (ma anche di lunghi silenzi, scanditi da un vino nero come la notte e pranzi pantagruelici). Cogli abitanti del luogo Jünger parla un po’ di tutto, ma perlopiù ascolta, di passato e presente – il futuro, quello, mai – dalle usanze locali alla Storia, che ha ovviamente attraversato anche quei corpi. Dopo cena, talvolta, i doganieri intonano il canto del «Duce Benito», non senza prima essersi tolti le uniformi. Uno dei suoi interlocutori gli dice di esser stato ferito nella Prima Guerra Mondiale e di aver perso un figlio nella seconda. Anche lui ne sa qualcosa. Reclina il capo, mentre il suo pensiero va alle scogliere di marmo di Carrara, dove è caduto suo figlio Ernstel.

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I giorni passano e il Signor Ernesto – così lo chiamano a Illador – fa lunghe passeggiate, attraversando campi imbionditi dai cereali, muraglie di fichi d’India e una macchia mediterranea issatasi eroica sotto un sole sferzante, che dardeggia la costa, irrorata dal mare. Di tanto in tanto il suo sguardo si posa sull’Isola dei Gabbiani e su quella dei Serpenti (oggi Serpentara), nei pressi di Castiadas, sormontate rispettivamente da un castello in rovina e un faro. A colpirlo è l’abbondanza della natura, che non fa economia né lesina in sperperi («è ben oltre la funzionalità», parole che avrebbero sottoscritto Georges Bataille e Marcel Mauss), la stessa che fece esclamare, dall’altra parte del mare, allo Zarathustra nietzschiano:

«Ho imparato questo dal sole, quando il ricchissimo tramonta: getta nel mare l’oro della sua inesauribile ricchezza, così che anche il più povero pescatore rema con remi d’oro! Vidi questo una volta e alla vista non mi saziai di piangere».

Se fu un tramonto ligure a dettare queste parole a Nietzsche, che le scrisse a Rapallo, Jünger cercò il Grande Meriggio di Zarathustra in Sardegna, come disse una volta Banine, sua correttrice di bozze e compagna di viaggio ad Antibes. Ma il Sole e il mare mediterranei gli sussurrano, soprattutto, di avere ancora un’immensa riserva di tempo. E il tempo gli darà ragione, facendolo vivere sino al 1998, all’età di centotré anni.

L’enigma del tempo, che ha incantato Borges e gli spiriti più eletti del Novecento: ecco ciò che Jünger incontra in Sardegna in quella tarda primavera, non ancora estate. Il Contemplatore Solitario si tuffa nel miracolo della storia nei nuraghi presso Macomer, adornati da licheni, che dovettero apparire antichi già ai Fenici. Il suo sguardo si amplia, sfondando gli orizzonti storiografici moderni, andando oltre le sue Colonne d’Ercole, impresa conclusa cinque anni dopo in quello che forse è il suo libro migliore, Al muro del tempo, trattato di metafisica della storia che analizza il tempo storico come una parentesi, nata dalla messa al bando di forze mitiche che stanno per fare ritorno. Ebbene, il passaggio dalla storia del mondo (Weltgeschichte) alla storia della terra (Erdegeschichte) ha luogo forse per la prima volta al cospetto di un nuraghe che, come ha scritto Henri Plard, curatore de Il contemplatore solitario, ricorda a Jünger il fenomeno originario di cui ha parlato il suo maestro Goethe, che si cela dietro a tutte le manifestazioni naturali. Da esso nascerà la torre, il granaio, il castello… Archetipi? Null’affatto. Gli archetipi sono molti, il fenomeno originario è uno.

Questa compresenza, ai suoi occhi, sceglie quello sardo come territorio d’elezione. È come se in certi luoghi la geografia costringesse la storia a venire allo scoperto, esibendo i propri caratteri fondamentali. Anche perché qui il passato vive in una contemporaneità assoluta, plastica. La Sardegna jüngeriana è in grado di cicatrizzare e risanare antiche ferite. Qui tutto è presente, l’eternità coesiste con il tempo: «La storia diventa un mysterium. La successione temporale diventa un’immagine campata nello spazio», parole che – come scrive Quirino Principe – ricordano quelle di Gurmenanz del Parsifal wagneriano: «Figlio mio, qui il tempo diventa spazio». Il cerchio si chiude.

Il sigillo di quel viaggio è una fuoriuscita dalla storia non veicolata dalla ratio ma dalla contemplazione delle forme, del loro stile. È nella continuità delle forme, nella loro metamorfosi, a manifestarsi il fenomeno originario. Che non è un’idea astratta, ma qualcosa d’immanente al reale, la messa in forma di un destino e allo stesso tempo la sua più alta meta. Contemplando il reale e non dissezionandolo, come fa invece la scienza moderna, ci reinseriamo nei meccanismi che regolano il cosmo. Ciò è molto facile in Sardegna – e in Italia – scrive Jünger, dove la compresenza di presente e futuro è visibile a livello geografico, territoriale, elementare, ma anche fisiognomico. Lì può accadere, passeggiando per luoghi affollati, d’incontrare un viso particolare, con tratti inusuali. Allora ci fermiamo, percorsi da un brivido. I tratti intravisti sono antichi, forse addirittura preistorici, e l’osservazione si spinge allora sempre più a ritroso, nelle profondità dei secoli e dei millenni, fino al limite estremo del muro del tempo. «Sentiamo che ci è passato vicino un essere originario, primordiale, venuto a noi da tempi in cui non esistevano né popoli né paesi». Ma la stessa cosa accade anche se ci mettiamo a riflettere su noi stessi: per quale motivo non siamo tutti uguali, ma nutriamo peculiari inclinazioni per la caccia o la pesca, per la contemplazione o l’azione, «per lo scontro in battaglia, per l’occulta magia degli esorcismi? Seguendo le nostre vocazioni, consumiamo la nostra più antica parte di eredità. Abbandoniamo il mondo storico, e antenati sconosciuti festeggiano in noi il loro ritorno».

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È la contemplazione e non l’analisi a permettere questa fuoriuscita dal tempo – la stessa di cui parlò Mircea Eliade, che tra l’altro diresse con Jünger «Antaios», dall’inizio degli anni Sessanta a metà dei Settanta. Ebbene, sulle colonne di quella meravigliosa rivista uscì, nel 1963, lo scritto jüngeriano Lo scarabeo spagnolo, sempre nato in terra sarda. Qui la meditazione su uno scarabeo intravisto sul gretto di un fiume (Riu Campus) diventa occasione per riflettere sulla caducità delle cose. Tutto muore e trapassa nell’inorganico, ma guai a chi non lo inserisce in un contesto più alto. Guai a chi si esaurisce nel presente, nella storia. Guai a non vedere nel transeunte l’orma dell’eterno. Chi abbia il coraggio di avventurarsi nei labirinti della contemplazione, tuttavia, scoprirà scenari inediti, all’interno dei quali anche l’uomo acquisisce facoltà nuove:

«Ognuno è re di Thule, è sovrano agli estremi confini, è principe e mendicante. Se sacrifica l’aurea coppa della vita alla profondità, offre testimonianza della pienezza cui la coppa rinvia e che egli incarna senza poterla comprendere. Come lo splendore dello scarabeo spagnolo, così le corone regali alludono a una signoria che nessuna conflagrazione universale distrugge. Nei suoi palazzi la morte non penetra; è solo la guardiana della porta. Il suo portale rimane aperto mentre stirpi di uomini e di dèi si avvicendano e scompaiono».

Avventurandoci in questa Babele di dimensioni storiche e piani dell’essere, lo stesso linguaggio finisce per rivelare la propria insufficienza e naufraga, laddove la traiettoria di un insetto è in grado di ripetere il moto planetario. Servendoci di un’antica immagine, il linguaggio discorsivo è come una canoa utile per attraversare un fiume, ma che una volta espletato questo compito va abbandonata a riva. Il percorso deve proseguire in altro modo. Così sono i nomi, che non si limitano a designare cose, ma rinviano sempre a qualcos’altro,

«ombre d’invisibili soli, orme su vasti specchi d’acqua, colonne di fumo che s’innalzano da incendi il cui sito è nascosto. Là il grande Alessandro non è più grande del suo schiavo, ma è più grande della propria fama. Anche gli dèi, là, sono soltanto simboli. Tramontano come i popoli e le stelle, eppure hanno valore i sacrifici che li onorano».

Come già accennato, i diari di Illador-Villasimius sono dedicati alla Torre Saracena di Capo Carbonara; vi si arriva facilmente, percorrendo un sentiero – nulla di particolarmente impegnativo – che dalla lunga spiaggia bianca porta alle pendici dell’antica torre di vedetta. L’11 maggio, ai piedi della solitaria costruzione arroventata dal sole (oggi conosciuta come Torre di Porto Giunco), Jünger avverte «un alito di nuda potenza, di pallida vigilanza». Un sentore di perenne insicurezza, d’instabilità. Comprende di trovarsi in un luogo di confine, Giano bifronte che unisce e separa a un tempo, linea di frontiera tra Oriente e Occidente, storia e metastoria. Segno liminare tra terra e mare che impone un aut-aut, ci torna una decina di giorni dopo, assieme a un certo Angelo (uomo mercuriale), armato di martello e scalpello. Lascia una traccia, com’era – ed è tutt’ora – uso fare. Quella traccia è ancora lì, a distanza di oltre cinquant’anni: E. J., 22.V.54. Dopodiché ridiscende il sentiero, fino alla spiaggia. Guardandola dall’alto, si è accorto che presenta singolari striature rosate: sono conchiglie frantumate. Frugando, ne trova una semi-intatta, la cui forma lo sgomenta. È una conchiglia a forma di cuore, la cui perfezione formale rimanda a un ordine che è di questo mondo ma in esso non si esaurisce. È come se la bacchetta di un direttore invisibile avesse dato il la a un’esecuzione di cui non udiamo che gli echi. E, ancora una volta, ecco emergere dalla contemplazione la Terra originaria, in una magnifica assenza di umanità. È ad essa che il piccolo oggetto rinvia: una proprietà, annota Jünger, ben nota a quei popoli antichi che utilizzavano le conchiglie come moneta, al posto dell’oro. La sua forma potrebbe condurci

«a fiammeggianti soli. Colui che vaga per la nostra terra la esibisce come un geroglifico. Il guardiano del portone di fiamma vede a quale sublime configurazione è adatta la polvere che turbina su questa stella. Qualcosa d’immortale lo illumina. Dà il suo segnale: la conchiglia si trasforma in ardore incandescente, in luce, in pura irradiazione. Il portone si apre di scatto».

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Abbiamo detto che la Sardegna segna, in qualche modo, l’approdo di Jünger ai grandi spazi di una storiografia ultraeuclidea, mostrandogli un territorio innervato da un destino antecedente a quello dei manuali. I nuraghi precedono le piramidi, le mura di Ilio e il palazzo di Agamennone. Un giorno si trova nei pressi di Punta Molentis, al largo della quale si dice esserci un antico porto sommerso. Chissà, magari a questo porto corrisponde anche una città, secondo un’antica leggenda diffusa in tutte le coste mediterranee. È un’immagine molto potente del senso della storia. Come ha scritto Predrag Matvejević nel suo magnifico Breviario mediterraneo,

«un porto affondato è una specie di necropoli. Divide lo stesso destino delle città o delle isole sommerse: circondato dagli stessi misteri, accompagnato da questioni simili, seguito dagli stessi ammonimenti. Ciascuno di noi è talvolta un porto affondato, nel Mediterraneo».

Sempre nei pressi di Punta Molentis, dove un’esile lingua di sabbia separa i due mari, trova un’antichissima grotta, addirittura più vecchia degli stessi nuraghi. È stupefatto: per inquadrare questa rudimentale abitazione, occorre adottare scale temporali molto più ampie di quelle storiografiche. Luoghi del genere intimano al visitatore di confrontarsi con regioni sommerse del proprio Io, abbandonando gli orpelli mentali usuali:

«A volte, l’uomo è costretto dall’urgenza del destino a uscire dai palazzi della storia, a venire al cospetto di questa sua primitiva dimora, a domandarsi se ancora la riconosca, se sia ancora alla sua altezza, se ne sia ancora degno. Qui egli è processato e giudicato dall’Immutabile che persiste al fondo della storia».

L’uomo tende a ricacciare questo Immutabile in un lontanissimo passato, nell’alba dei tempi. Una sciocchezza: esso è «al centro, nel punto più interno della foresta, e le civiltà gli girano intorno». Al pari del mito che, come aveva scritto nel Trattato del ribelle tre anni prima, non è la narrazione dei tempi che furono ma una realtà che si ripresenta quando la storia vacilla sin dalle fondamenta.

Meditando su ciò che ha appena visto, con maschera e tubo respiratorio, si getta nell’acqua poco profonda e attraversa la piccola laguna a nuoto. È una delle sue attività preferite, specie in Sardegna. In quel periodo nessuno degli abitanti fa il bagno, ma lui è abituato ad altre latitudini, e non perde tempo. C’è un vecchio epitaffio, inciso sulle rovine accanto al porto di Giaffa, nei pressi di Tel Aviv, che recita: «Nuoto, il mare è attorno a me, il mare è in me, e io sono il mare. In terra non ci sono e mai ci sarò. Affonderò in me stesso, nel mio proprio mare». In queste antichissime righe, c’è tutto Jünger, sospeso sulla superficie acquea di un mare cristallino, a riflettere sui sottili legami tra passato e presente, mito e storia.

Teatro di queste incursioni è il Mediterraneo, qui inteso in senso più che geografico. Agorà e labirinto, «perduto mare del Sé» (Janvs), archivio e sepolcro, corrente e destino, crepuscolo e aurora, apollineo e dionisiaco, «è una grande patria», scrive Jünger, «una dimora antica. A ogni mia nuova visita me ne accorgo con evidenza sempre maggiore; che esista anche nel cosmo, un Mediterraneo?». Se è vero, come scrive Matvejević nel suo libro già citato, che «il Mediterraneo attende da tempo una nuova grande opera sul proprio destino», quella di Jünger potrebbe esserne la bozza. Un destino osservato sulle rocce e sulle piante, abbrivio a dèi ed eroi omerici, simulacri di battaglie cosmiche che si compiono dall’aurora dei tempi. Tutto ciò è riflesso nei volti che ha modo d’incontrare, nelle calette in cui si avventura e negli insetti che osserva, con la discrezione di un entomologo professionista. Tutte maschere di una sola cosa:

«Terra sarda, rossa, amara, virile, intessuta in un tappeto di stelle, da tempi immemorabili fiorita d’intatta fioritura ogni primavera, culla primordiale. Le isole sono patria nel senso più profondo, ultime sedi terrestri prima che abbia inizio il volo nel cosmo. A esse si addice non il linguaggio, ma piuttosto un canto del destino echeggiante sul mare».

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Un mare da cui si accomiaterà il primo giugno, ma solo per qualche tempo (mediterranea è anche, in senso eminente, la certezza del ritorno). Jünger prepara i bagagli, e percorre a ritroso il suo viaggio. Sulla strada verso Cagliari, s’imbatte nei bunker eretti dalla Wehrmacht durante la Seconda guerra mondiale. Forse la foresta se li inghiottirà. Difficile che invecchino bene, come invece il Forte di Michelangelo a Civitavecchia, le macchine da guerra di Leonardo o le prigioni di Piranesi… Prende il treno per Olbia. Dopo settimane di astinenza dalla modernità, compra un giornale, solo per vedere quanto poco il mondo sia cambiato. L’argomento à la page è la bomba atomica, il tono è «come sempre noioso, irritante, indecoroso. Ci si domanda a volte a quale scopo si paghi l’onorario ai filosofi». Chissà cosa direbbe oggi, di fronte a certe querelle da bettola… Dopodiché, in nave fino a Civitavecchia, dove lo attende un treno, diretto a Nord. La linea passa da Carrara, mentre a sinistra c’è sempre il mediterraneo, muto spettatore di un dolore non ancora cicatrizzato. «Il mare è una lingua antichissima che non riesco a decifrare» scrisse il suo amico Jorge Luis Borges nel 1925 (nel saggio Navigazione, uscito ne La luna vicina).

Il congedo di Jünger dalla Sardische Heimat è solo temporaneo. Vi tornerà diverse volte, finché le condizioni di salute glielo permetteranno. Nato sotto costellazioni settentrionali, in quel lontano 1954 ha subito un fascino cui è molto difficile sottrarsi, e ora non può che rispondere periodicamente a quest’appello. «Mare! Mare! Queste parole passavano di bocca in bocca. Tutti corsero in direzione di esso… cominciarono a baciarsi gli uni cogli altri, piangendo» ci rivela Senofonte nelle Anabasi, descrivendo la reazione dei soldati greci, dopo un lungo peregrinare a terra, affacciatisi sul Mediterraneo. Furono forse le stesse parole che rimbombarono nelle orecchie del Contemplatore Solitario a bordo di quell’autobus, tra un tornante e l’altro, tra un mare e l’altro, fino a Illador, oasi di un passato martoriato e misteriosa prefigurazione di un destino a venire.

dimanche, 30 septembre 2018

Conférence: le mouvement völkisch

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samedi, 15 septembre 2018

Editions du Lore: parution du tome deuxième de Robert Steuckers sur la "Révolution conservatrice" allemande

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Editions du Lore: parution du tome deuxième de Robert Steuckers sur la "Révolution conservatrice" allemande

Pour se procurer ce volume:

http://www.ladiffusiondulore.fr/home/690-la-revolution-co...

ENTRETIENS, CONFERENCES ET PHILOSOPHIE AUTOUR DE LA REVOLUTION CONSERVATRICE

Entretien avec Robert Steuckers sur la « révolution conservatrice » allemande dans la revue Le Harfang

Entretien avec Robert Steuckers sur Ernst Jünger, Armin Mohler et la « révolution conservatrice » pour la revue Philitt (Paris)

Entretien avec Robert Steuckers sur la "révolution conservatrice" pour l’hebdomadaire Rivarol

Ma découverte de la « révolution conservatrice ». Entretien avec Thierry Martin (Université Paris IV)

Conférence de Robert Steuckers sur la révolution conservatrice allemande à la tribune du « Cercle Non Conforme »

Bibliographie jüngerienne

Treize thèses et constats sur la « révolution conservatrice »

Retrouver un âge d’or ? Intervention au Colloque Erkenbrand, Rotterdam, octobre 2017

Conception de l’Homme et révolution conservatrice : Heidegger et son temps

Heidegger, la tradition, la révolution, la résistance et l’ « anarquisme »

Heidegger et la crise de l’Université allemande

La philosophie politique de Heidegger

La philosophie de l’argent et la philosophie de la Vie chez Georg Simmel (1858-1918)

Arnold Gehlen et l’anthropologie philosophique

Une critique de la modernité chez Peter Koslowski

REVOLUTION CONSERVATRICE ET GEOPOLITIQUE

Rudolf Kjellen (1864-1922)

L’œuvre géopolitique de Karl Haushofer

L’itinéraire d’un géopolitologue allemand : Karl Haushofer

Une thèse sur Haushofer

EN FRANCE, APRES LA REVOLUTION CONSERVATRICE

En souvenir de Jean Mabire

En souvenir de Dominique Venner

vendredi, 14 septembre 2018

Ernst Jüngers Entwurf von der „Herrschaft und Gestalt des Arbeiters“

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Ernst Jüngers Entwurf von

der „Herrschaft und Gestalt

des Arbeiters“

Philologischer

Versuch einer Annäherung

ISBN: 978-3-8260-5824-0
Autor: Dietka, Norbert
Year of publication: 2016
 
 
29,80 EUR

Pagenumbers: 226
Language: deutsch

Short description: Mit dieser „philologischen Annäherung“ an Ernst Jüngers Hauptwerk „Der Arbeiter. Herrschaft und Gestalt“ (1932) wird erstmalig der Versuch unternommen, den gesamten Text des äußerst umstrittenen Großessays von der Entstehung her, ergo bezugnehmend auf Jüngers „Politische Publizistik“ (1919-1933), zu beleuchten sowie die Programmschrift „Die totale Mobilmachung“ von 1930 und den Essays „Über den Schmerz“ von 1934 als integrative Bestandteile einzubeziehen. Dabei wird nicht unterschlagen, dass Jüngers gewichtiger Beitrag zur Zeitgeschichte bislang zahlreiche Exegesen hervorgerufen hat – eine diesbezügliche Werkübersicht ist angefügt. In erster Linie aber sollen der Text selbst und die zeitnahe Reaktionen auf diesen Text untersucht werden – keine ideologiekritische Bewertung ist intendiert, vielmehr wird hier eine sachliche, kontextuelle Analyse vorgelegt.

Der Autor Norbert Dietka studierte Germanistik und Geschichte an der Universität Dortmund und wurde dort mit einer Arbeit über die Jünger-Kritik (1945- 1985) 1987 promoviert. Dietka war bis 2013 im Schuldienst und versteht sich heute als freier Publizist. Der Autor hat mehrere Beiträge zur Jünger- Rezeption in der französisch-deutschen Publikationsreihe „Les Carnets“ der „Revue du Centre de Recherche et de Documentation Ernst Jünger“ (Rédacteurs en chef: Danièle Beltran-Vidal und Lutz Hagestedt) veröffentlicht und war zuletzt mit einem Aufsatz am Projekt „Ernst Jünger Handbuch“ des Verlages J. B. Metzler (hg. von Matthias Schöning) beteiligt.

Leopold Ziegler. Eine Schlüsselfigur im Umkreis des Denkens von Ernst und Friedrich Georg Jünger

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Leopold Ziegler.

Eine Schlüsselfigur im Umkreis

des Denkens von Ernst und

Friedrich Georg Jünger

 
ISBN: 978-3-8260-3935-5
Autor: Kölling Timo
Year of publication: 2008
Price: 26,00 euro
 

Pagenumbers: 172
Language: deutsch

Short description: Der große Einfluß, den das Werk des Philosophen Leopold Ziegler (1881-1958) auf das Denken der Brüder Ernst Jünger und Friedrich Georg Jünger ausgeübt hat, ist bislang nicht nur unterschätzt, sondern im Grunde überhaupt noch nicht zur Kenntnis genommen worden. Die vorliegende Studie, die zugleich als Einführung in Zieglers Werk gelesen werden kann, legt diesen Einfluß erstmals frei. Im Zentrum steht der Nachweis, daß Ernst Jüngers umstrittene und in vielerlei Hinsicht rätselhafte Konzeption des „Arbeiters“ als metaphysische „Gestalt“ sich in allen ihren wesentlichen Momenten auf Leopold Zieglers Buch „Gestaltwandel der Götter“ zurückführen läßt. Der entscheidende Grundgedanke Zieglers wird von Jünger aber in sein Gegenteil verkehrt: aus der philosophisch fruchtbaren Konzeption einer mystischen Teilhabe wird die theoretische Sackgasse einer magischen Identitätstheorie. Der Aufweis dieser Differenz erlaubt es, Zieglers Denken, das in seinem Kern der Versuch einer zeitgemäßen Erneuerung der Philosophia Perennis mit den Mitteln einer negativen Geschichtsphilosophie ist, gegen das Konstrukt der sogenannten „Konservativen Revolution“ abzugrenzen. Der Autor Timo Kölling lebt und arbeitet als freier Schriftsteller in Frankfurt am Main. Seit März 2007 Arbeitsstipendium der Leopold-Ziegler-Stiftung. http://www.leopold-ziegler-stiftung.de

leopold ziegler,révolution conservatrice,livre,tradition,traditionalisme,ernst jünger,friedrich-georg jünger,allemagne,philosophie

Leopold Ziegler,

Philosoph der letzten Dinge.

Eine Werkgeschichte 1901-1958.

Beiträge zum Werk, Bd. 4

ISBN: 978-3-8260-6111-0
Autor: Kölling, Timo
Band Nr: 4
Year of publication: 2016
 
 
58,00 EUR - excl.Shipping costs
Pagenumbers: 540
Language: deutsch

Short description: Leopold Ziegler (1881–1958) ist der Poet unter den deutschsprachigen Philosophen des zwanzigsten Jahrhunderts. Seiner Philosophie eignet ein künstlerischer Zug, der ihren sachlichen Gehalt zugleich realisiert und verschließt, ausdrückt und verbirgt. Ziegler hat sein Anliegen in Anknüpfung an Jakob Böhme, Franz von Baader und F. W. J. Schelling als „theosophisches“ kenntlich gemacht und damit die Grenzen der akademischen Philosophie seiner Zeit weniger ausgelotet als ignoriert und überschritten. Timo Köllings im Auftrag der Leopold-Ziegler- Stiftung verfasstes Buch ist nicht nur das erste zu Ziegler, das nahezu alle veröffentlichten Texte des Philosophen in die Darstellung einbezieht, sondern auch eine philosophische Theorie von Zieglers Epoche und ein Traktat über die Wiederkehr eines eschatologischen Geschichtsbildes im 20. Jahrhundert.

Der Autor Timo Kölling ist Lyriker und Philosoph. Als Stipendiat der Leopold-Ziegler-Stiftung veröffentlichte er 2009 bei Königshausen & Neumann sein Buch „Leopold Ziegler. Eine Schlüsselfigur im Umkreis des Denkens von Ernst und Friedrich Georg Jünger“.

Die Ordnung der Dinge. Ernst Jüngers Autorschaft als transzendentale Sinnsuche

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Die Ordnung der Dinge.

Ernst Jüngers Autorschaft

als transzendentale Sinnsuche

 

ISBN: 978-3-8260-6533-0
Autor: Rubel, Alexander
Year of publication: 2018
 
 
29,80 EUR

Pagenumbers: 200
Language: deutsch

Short description: Die vorliegende Arbeit beschäftigt sich mit dem Gesamtwerk Ernst Jüngers aus einer ganz bestimmten Perspektive, die bislang noch nicht erforscht wurde: Ernst Jünger wird als Autor der Transzendenz gedeutet, dessen Werk in besonderem Maße von der religiös-transzendentalen Bewältigung der Kriegserfahrung im Ersten Weltkrieg bestimmt ist. Jüngers Werk ist vor diesem Hintergrund in seiner Gesamtheit als Manifest einer Sinnsuche zu interpretieren, mit welcher der Autor der eigenen Kontingenzerfahrung ein sinnvolles, religiös-metaphysisch grundiertes Ordnungssystem entgegenstellt. Jünger erscheint in dieser Deutung nicht als moderner Autor, etwa als Vertreter eines eigenständigen deutschen Surrealismus (in diesem Sinne deutete K-H. Bohrer Jüngers Frühwerk), sondern bleibt einer traditionellen Denkweise verhaftet, die das Grundproblem der Moderne ignoriert: Die Erfahrung der Kontingenz. Anders als die meisten Autoren der literarischen Moderne akzeptiert Jünger die Kontingenz des individuellen Lebens nicht, sondern insistiert auf einem Sinn des individuellen Lebens ebenso hartnäckig wie auf der Ordnung des Kosmos, die sich freilich nicht offenbart, sondern die es in der Welt der Erscheinungen mit subtilen Methoden erst aufzuspüren gilt.

Der Autor:
 
Alexander Rubel ist Inhaber einer Forschungsprofessur am Archäologischen Institut der Rumänischen Akademie in Jassy (Rumänien), dem er seit 2011 als Direktor vorsteht. Neben Arbeiten aus seinem engeren Fachgebiet publiziert er zu breiteren kultur- und literaturwissenschaftlichen Themen.

vendredi, 07 septembre 2018

Carl Schmitt fra “terra e mare” alla ricerca di un “nomos” per la Terra

Carl Schmitt. Plaidoyer pour la multipolarité, 1943.png

Carl Schmitt fra “terra e mare” alla ricerca di un “nomos” per la Terra

da Giovanni Balducci
Ex: http://www.barbadillo.it

Nella postfazione a Terra e mare di Carl Schmitt, dal titolo “Il potere degli elementi”, il grande quanto sfortunato filosofo e storico della filosofia Franco Volpi (scomparso prematuramente nel 2009 a soli 57 anni in un banale incidente in bici), facendo fede sul resoconto di un discepolo del grande giurista tedesco, ci presenta la suggestiva immagine di uno Schmitt che nel suo eremo di Plettenberg, in piena seconda guerra mondiale, si interroga circa le sorti del mondo e dell’Europa in particolare, sublimando la sua nostalgia e il proprio isolamento accostando la sua sorte a quella di eminenti predecessori o di mitiche figure di valenti outsider, fra cui Niccolò Machiavelli, che dopo aver insegnato al mondo gli arcana imperii ebbe a terminare i suoi giorni nel suo ritiro di San Casciano e il letterario Benito Cereno, il capitano “bianco”, uscito dalla penna di Herman Melville, ammutinato da schiavi “negri”.

Il grosso problema che a quel tempo ossessionava Schmitt era riuscire a dirimere il conflitto, da lui individuato, fra le due concezioni del mondo cattolica ed ebraica, che caratterizzava la civiltà occidentale. Schimitt, che stranamente – stando al racconto – ha appeso alla parete del suo studio un ritratto del politico ebreo Benjamin Disraeli, quando nelle case di ogni buon tedesco anni ’40 l’unico quadro a campeggiare era quello del Führer, non fa mistero di ritenere come interpretazione vincente la visione ebraica della storia, intesa come progresso dell’umanità verso un “futuro regno di pace”, o se si vuole, verso la “Nuova Gerusalemme”, lontana sì nel tempo, ma situata nell’aldiquà, e dunque ben più concreta di quell’ipotetico aldilà cui anelava la teologia cristiano-cattolica.

Per Schmitt, tuttavia, il cristianesimo può essere interpretato come una sorta di divulgazione “essoterica” fatta ai gentili della vera dottrina giudaica. In effetti, nella stessa interpretazione della Genesi, come espressa nello Zohar, suo commentario cabbalistico, si afferma che compito di ogni pio ebreo e di ogni uomo di retta volontà tra i gentili sarebbe quello di operare per la realizzazione del «tikkun» , la riparazione dell’anima umana (tikkun ha-nefesh) e di rimando del mondo (tikkun ha olàm), riportando la “presenza divina” (Shekhinah), o meglio sarebbe dire, rendendo la stessa presente, nel dominio degli uomini, riscattando in tal modo il peccato di Adamo, che osò separare sé stesso dalla Totalità universale e divina. Lo stesso Disraeli, del resto appare a Schimitt come «un iniziato, un saggio di Sion»: è quanto testualmente scrive nell’edizione di Terra e Mare del 1942; frase saggiamente espunta a guerra finita.

Un altro tema forte delle cogitazioni del grande giurista tedesco è la lotta tra le categorie giuridico-politiche di «Staat» (“Stato”), quella, per intenderci, dello stato “Leviatano” introdotta da Hobbes, e quella, verso cui Schmitt è più propenso, ritenendola superiore sia allo «Staat» di Hobbes sia all’ideologia völkisch che animava l’azione di Hitler e del nazionalsocialismo, di «Großraum» (“grande spazio terrestre”, o anche “ spazio imperiale”).

Questa variante era preferita da Schimitt alla stessa Lega delle Nazioni, incapace di dirimere le grandi questioni europee ed internazionali e di dare nuova legge e nuovo ordine al mondo, secondo il famoso concetto schmittiano di «nomos della terra». Essa inoltre si mostrava in tutta la sua debolezza al confronto con gli Stati Uniti d’America, che Schmitt vedeva come il vero nuovo “arbitro della terra”.

Egli, tuttavia, pur ammirando la dottrina Monroe, che secondo la sua visione delle cose aveva consentito agli Stati Uniti di assurgere al primato internazionale, costituendosi come un mix di indipendentismo e sovranità (isolazionismo?) e interventismo mirato in spazi extranazionali, riteneva che gli Stati Uniti, pur non essendo, a differenza dell’Inghilterra, un fattore di “dissolvimento”, non potevano rappresentare quella che per lui doveva essere la figura del katèchon, capace di frenare il processo dissolutivo dell’Ecumene occidentale, e per due gravi motivi: l’incapacità dimostrata nel recidere il cordone ombelicale dalla madrepatria britannica e al contempo l’ideologia accarezzata di un “nuovo secolo americano”.

Ecco che proprio questo farebbe declassare agli occhi di Schmitt gli Stati Uniti, da possibile katèchon, al ruolo addirittura di “ acceleratore involontario” della definitiva dissoluzione della società occidentale.

La concezione marittima del potere, come portata avanti dagli inglesi, per Schmitt, infatti, aveva avuto un ruolo determinante nella fine della concezione continentale, dunque terrestre, dello Ius publicum Europaeum e dell’ordine tradizionale del Vecchio continente, tendendo essa a radicalizzare i conflitti fino a promuovere l’ideologia di una “guerra totale” , che più non si limita al mero scontro fra eserciti belligeranti, ma porta alla “criminalizzazione” di interi popoli, e addirittura degli stati che commerciano o in qualche modo sono accusati di sostenere l’economia del nemico.

Schmitt paragona l’Inghilterra a una “nave” – a una “nave pirata” ad esser precisi – del resto, gran parte del suo impero è stato costruito grazie ad azioni che non tenevano in nessun conto alcuna legge e il Diritto delle genti. Veri e propri atti di pirateria di schiumatori e buccaneers, come quelli di Francis Drake, poi divenuto Sir, hanno rappresentato il suo quasi consueto modus operandi.

Era pressappoco quanto si stava già profilando sullo scenario di guerra cui Schmitt sta assistendo. Siamo per la precisione nell’anno di “grazia” 1942, quando, sbarcando in Irlanda, giunge in Europa il primo contingente militare statunitense, e la guerra dopo aver attraversato gli elementi terra e aria, si appresta ad interessare l’elemento acqua, facendosi poi addirittura sottomarina.

@barbadilloit

Di Giovanni Balducci

vendredi, 03 août 2018

Ruimterevolutie: Hoe de walvisjacht ons wereldbeeld veranderde

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Ruimterevolutie: Hoe de walvisjacht ons wereldbeeld veranderde

door Erwin Wolff

Ex: http://www.novini.nl

Het boek Land en zee van de Duitse rechtsfilosoof Carl Schmitt is een opvallende afwijking van zijn gebruikelijke discours. In zijn andere werken schrijft hij vooral over recht, politiek en direct aanverwante zaken. Een voorbeeld is het boek Die geistesgeschichtliche Lage des heutigen Parlamentarismus waarin Schmitt in 1923 de parlementaire democratie van de Weimarrepubliek bekritiseert. Bekender is het werk Der Begriff des Politischen waarin hij de politiek tot wij-zij tegenstellingen herleidt. In Land en zee gaat hij echter op heel andere zaken in.

Wat is de aarde eigenlijk en hoe komt het dat we de aarde zien zoals wij die zien? Hoe komt het dat wij anno 2018 de aarde zien als een groen-blauwe bol in een oneindige ruimte? Hoe kan dat zo verschillen van het wereldbeeld van andere volkeren? Volgens Carl Schmitt ligt hier een zogenoemde “ruimterevolutie” aan ten grondslag en die heeft alles te maken met de manier waarop onze voorouders naar hun wereld keken.

CSlandenzee.jpgDe eersten die de omslag maken zijn de oude Grieken in de klassieke Oudheid. Griekenland bestaat uit vele stadstaten, maar de zeemacht Athene en de landmacht Sparta steken in deze Griekse wereld boven allen uit. Het denken van de Grieken veranderde van een volk dat zich enkel met landbouw bezighield naar een zeemacht, omdat het op een gegeven moment het gehele oostelijke deel van de Middellandse zee ging beheersen. De Grieken waren opgesloten in deze context en ze misten de mankracht om hieruit te breken.

Pas toen het Romeinse Rijk uitdijde naar het tegenwoordige Frankrijk en dus naar de Atlantische oceaan, wist de klassieke Oudheid uit deze kooi te breken in de eerste eeuw van onze jaartelling. Maar toen was het eigenlijk al gedaan. Het Romeinse Rijk stortte zichzelf daarna in chaos en er was onder Romeinse leiding geen paradigmaverschuiving.

In de middeleeuwen was heel Europa, van het noorden tot het hele zuiden, opgemaakt uit verschillende agrarische staten. Aan de randen van deze boerenstaten werd er visserij bedreven. Met de Bijbel in de hand werden de Germaanse volkeren van noord tot zuid bekeerd tot het Christendom. De ruimte op de aarde is wat de Middeleeuwers betreft een heleboel land en een heleboel agrarische producten op dat land. Tot het einde van de middeleeuwen is er geen echte verandering in deze zienswijze.

In het Oude Testament is er een mythisch zeedier te vinden, de leviathan (Job, hoofdstuk 40 en 41), en leviathan gaat een grote rol spelen in de omslag van het besef van ruimte van de Germaanse volkeren in Europa. De leviathan, meestal afgebeeld als walvis, lokt de vissers van Europa de zee op omdat deze vis zich niet laat vangen aan de kust. Zonder de walvisjacht zouden de Europese vissers in een smalle strook van de kust zijn gebleven. Het besef van de ruimte op aarde verandert onder druk van de walvisjacht razendsnel. Carl Schmitt beschrijft dit fenomeen als een “ruimterevolutie”. De ruimte waarin men denkt te leven verandert van landmassa naar land- en zeemassa.


Ook de middelen om zich op de zee te begeven veranderen. De galei van de Klassieke wereld worden afgedaan en schepen die de wind opvangen met zeilen doen hun intrede. Men kan veel verder en veel sneller zich op zee begeven. Er wordt een nieuw continent ontdekt en daarmee nieuwe handel, nieuwe regels, nieuwe innovaties. Ongeveer tussen de jaren 1490 en 1600 vinden deze veranderingen plaats. Het besef van de ruimte waarin men denkt te leven verandert en de middeleeuwse ordening der dingen komt definitief ten einde. Hulpeloos rolt de Europese beschaving een nieuw tijdperk binnen.

Het begin is nog wat onhandig. Er gebeurt ook iets geks met Engeland. Vooral Engeland is in de middeleeuwen ook een boerenstaat die zich voornamelijk bezighoudt met schapen, textiel en Frankrijk proberen te veroveren. Het protestantse Engeland draait zijn rug naar het continent Europa en richt zich op de zee. Met zo’n succes zelfs dat het de katholieke landen Spanje en Portugal inhaalt. De heerschappij van de zee is van niemand of iedereen. Maar eigenlijk vooral van één land: Engeland. Dit Germaanse volk beheerst in de negentiende eeuw de zee, de zeehandel en daarmee de wereld. Zozeer zelfs dat Engeland zichzelf niet meer als Europese macht ziet.

We belanden aan in de 20e eeuw en dan vindt een tweede ruimterevolutie plaats. Het oudtestamentische monster, Leviathan, is niet meer zozeer een vis, maar een ijzeren monster in de vorm van een modern slagschip. De overgang van stoomboot naar modern slagschip is niet kleiner dan de overgang van galei naar zeilschip, verklaart Carl Schmitt. Duitsland en enkele andere landen zijn industriële machten geworden en kunnen net zo produceren als Engeland. Hiermee komt de onbetwiste heerschappij over de zee door Engeland ten einde.

Land en Zee is een bijna dichterlijke beschrijving van deze gigantische veranderingen. Het zijn mooie woorden die laten zien hoe het komt dat de Europese beschaving andere volkeren ontdekte en dat het niet die andere volkeren zijn geweest die ons ontdekt hebben.

mercredi, 01 août 2018

The Historical Background of Oswald Spengler’s Philosophy of Science

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Between the Heroic & the Immeasurable:
The Historical Background of Oswald Spengler’s Philosophy of Science

Oswald Spengler’s writings on the subject of the philosophy of science are very controversial, not only among his detractors but even for his admirers. What is little understood is that his views on these matters did not exist in a vacuum. Rather, Spengler’s arguments on the sciences articulate a long German tradition of rejecting English science, a tradition that originated in the eighteenth century.

Luke Hodgkin notes:

It is today regarded as a matter of historical fact that Isaac Newton and Gottfried Wilhelm Leibniz both independently conceived and developed the system of mathematical algorithms known collectively by the name of calculus. But this has not always been the prevalent point of view. During the eighteenth century, and much of the nineteenth, Leibniz was viewed by British mathematicians as a devious plagiarist who had not just stolen crucial ideas from Newton, but had also tried to claim the credit for the invention of the subject itself.[1] [2]

This wrongheaded view stems from Newton’s own catty libel of Leibniz on these matters. During this time, the beginning of the eighteenth century, Leibniz’s native Prussia had not yet become a serious power through the wars of Frederick the Great. Leibniz, together with Frederick the Great’s grandfather, founded the Royal Prussian Academy of Sciences. Newton’s slanderous account of Leibniz’s achievements would never be forgiven by the Germans, to whom Newton remained a bête noire as long as Germany remained a proud nation.

In the context of inquiring into the matter of how such a pessimist as Spengler could admire so notorious an optimist as Leibniz, two foreign members of the Prussian Academy of Sciences merit attention. The thought of French scientist and philosopher Pierre Louis Moreau de Maupertuis, an exponent and defender of Leibnizian ideas, was in many ways a precursor to modern biology. Maupertuis wrote under the patronage of Frederick the Great, about a generation after Leibniz. Compared to other eighteenth-century philosophies, Maupertuis’ worldview, like modern biology and unlike most Enlightenment thought, presents nature as rather “red in tooth and claw.”

An earlier foreign member of the Prussian Academy of Sciences, a contemporary and correspondent of Leibniz, Moldavian Prince (and eccentric pretender to descent from Tamerlane) Dimitrie Cantemir, left two cultural legacies to Western history. Initially an Ottoman vassal, he gave traditional Turkish music its first system of notation, ushering in the classical era of Turkish music that would later influence Mozart. Later – after he had turned against the Ottoman Porte in an alliance with Petrine Russia, but was driven out of power and into exile due to his abysmal battlefield leadership – he wrote much about history. Most impactful in the West was a two-volume book that would be translated into English in 1734 as The History of the Growth and Decay of the Othman Empire. Voltaire and Gibbon later read Cantemir’s work, as did Victor Hugo.[2] [3]

Notes one biographer, “Cantemir’s philosophy of history is empiric and mechanistic. The destiny in history of empires is viewed . . . through cycles similar to the natural stages of birth, growth, decline, and death.”[3] [4] Long before Nietzsche popularized the argument, Cantemir proposed that high cultures are initially founded by barbarians, and also that a civilization’s level of high culture has nothing to do with its political success.[4] [5] Thus was the Leibnizian intellectual legacy mixed with pessimism even in Leibniz’s own lifetime.

OswSP-MTech.jpegIt was most likely in the context of this scientific tradition and its enemies that Johann Wolfgang von Goethe, generally recognized as Germany’s greatest poet (or one of them, at any rate), later authored attacks on Newton’s ideas, such as Theory of Colors. Goethe, an early pioneer in biology and the life sciences, loathed the notion that there is anything universally axiomatic about the mathematical sciences. Goethe had one major predecessor in this, the Anglo-Irish philosopher and Anglican bishop George Berkeley. Like Berkeley, Goethe argued that Newtonian abstractions contradict empirical understandings. Both Berkeley and Goethe, though for different reasons, took issue with the common (or at least, commonly Anglo-Saxon) wisdom that “mathematics is a universal language.”

By the early modern age of European history, when Goethe’s Faust takes place, cabalistic doctrines, notes Carl Schmitt, “became known outside Jewry, as can be gathered from Luther’s Table Talks, Bodin’s Demonomanie, Reland’s Analects, and Eisenmenger’s Entdecktes Judenthum.”[5] [6] This phenomenon can be traced to the indispensable influence of the very inventors of cabalism, collectively speaking, on the West’s transition from feudalism to modern capitalism since the Age of Discovery, and in some cases even earlier. In 1911’s The Jews and Modern Capitalism, Werner Sombart points out that “Venice was a city of Jews” as early as 1152.

Cabalism deeply permeates the worldviews of many influential secret societies of Western history since medieval times, and certainly continuing with the official establishment of Freemasonry in 1717. Although the details will never be entirely clear, it is known that Goethe was involved with the Bavarian Illuminati in his youth. He seems to have experienced conservative disillusionment with it later in life. It is possible that the posthumous publication of Faust: The Second Part of the Tragedy was due at least in part to the book’s ambivalently revealing too much about the esoterica of Goethe’s former occult activities.

What is clear is that he was directly interested in cabalistic concepts. Karin Schutjer persuasively argues that “Goethe had ample opportunity to learn about Jewish Kabbalah – particularly that of the sixteenth-century rabbi Isaac Luria – and good reason to take it seriously . . . Goethe’s interest in Kabbalah might have been further sparked by a prominent argument concerning its philosophical reception: the claim that Kabbalistic ideas underlie Spinoza’s philosophy.”[6] [7]

At one point in the second part of Faust, Goethe shows an interest in monetary issues related to usury or empty currency, as Schopenhauer after him would.[7] [8] This is fitting for a story that takes place in early modern Europe and concerns an alchemist. Some early modern alchemists were known as counterfeiters and would have most likely had contact with Jewish moneylenders. Insofar as his scientific philosophy had a social, and not just an intellectual, significance, this desire on Goethe’s part for economic concreteness was perhaps what led him to reject and combat one key cabalistic doctrine: numerology.

Numerology is the belief that numbers are divine and have prophetic power over the physical world. Goethe held the virtually opposite view of numbers and mathematical systems, proposing that “strict separation must be maintained between the physical sciences and mathematics.” According to Goethe, it is an “important task” to “banish mathematical-philosophical theories from those areas of physical science where they impede rather than advance knowledge,” and to discard the “false notion that a phrase of a mathematical formula can ever take the place of, or set aside, a phenomenon.” To Goethe, mathematics “runs into constant danger when it gets into the terrain of sense-experience.”[8] [9]

In his well-researched 1927 book on Freemasonry, General Erich Ludendorff remarks, “One must study the cabala in order to understand and evaluate the superstitious Jew correctly. He then is no longer a threatening opponent.”[9] [10] In his proceeding discussion of the subject, Ludendorff focuses exclusively on the numerological superstitions in cabalism. Such beliefs are affirmed by a Jewish cabalistic source, which informs us that “Sefirot” is the Hebrew word for numbers, which represent “a Tree of Divine Lights.”[10] [11]

Everything about Goethe’s rejection of scientific materialism can be seen as a rebellion against numerology in the sciences – and certainly, the modern mathematical sciences stand on the shoulders of numerology, as modern chemistry does on alchemy. Schmitt once mentioned the “mysterious Rosicrucian sensibility of Descartes,” a reference to the mysterious cabalistic initiatory movement that dominated the scientific philosophies of the seventeenth century.[11] [12] In this Descartes was hardly alone; the entire epoch of mostly French and English mathematicians in the early modern centuries, which ushered in the modern infinitesimal mathematical systems, was infused with cabalism. Even if it were possible to ignore the growing Jewish intellectual and economic influence on that age, one would still be left with the metaphysical affinities between numerology and even the most scientifically accomplished worldview that takes literally the assumption that numbers are eternal principles.

According to early National Socialist economist Gottfried Feder, “When the Babylonians overcame the Assyrians, the Romans the Carthaginians, the Germans the Romans, there was no continuance of interest slavery; there were no international world powers . . . Only the modern age with its continuity of possession and its international law allowed loan capitals to rise immeasurably.”[12] [13] Writing in 1919, Feder argues with the help of a graph that that “loan-interest capital . . . rises far above human conception and strives for infinity . . . The curve of industrial capital on the other hand remains within the finite!”[13] [14] Goethe may have similarly drawn connections between the kind of economic parasitism satirized in the second part of Faust and what he, like Berkeley, saw as the superstitious modern art of measuring the immeasurable.

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The fusion of science with numerology, it should be noted, is actually not of Hebrew or otherwise pre-Indo-European origin. It originates from pre-Socratic Greek philosophy’s debt, particularly that of the Pythagoreans, to the Indo-Iranian world, chiefly Thrace.[14] [15] (Possibly of note in this regard is that Schopenhauer admired the Thracians for their arch-pessimistic ethos, as though this mindset were the polar opposite of the world-affirming Jewish worldview he loathed.)[15] [16] In any case, Goethe recognized it as a powerful weapon. That he studied numerology has been established by scholars.[16] [17]

A generation before Goethe, Immanuel Kant had propounded the idea that the laws of polarity – the laws of attraction and repulsion – precede the Newtonian laws of matter and motion in every way. This argument would influence Goethe’s friend Friedrich Wilhelm von Schelling, another innovator in the life sciences as well as part of the literary and philosophical movement known as Romanticism. By the time Goethe propounded his anti-Newtonian theories and led a philosophical milieu, he had an entire German tradition of such theories to work from.

Goethe’s work was influential in Victorian Britain. Most notably, at least in terms of the scientific history of that era, Darwin would cite Goethe as a botanist in On the Origin of the Species. Darwin’s philosophy of science, to the extent that he had one, was largely built on that of Goethe and the age of what came to be known as Naturphilosophie. Historian of science Robert J. Richards has found that “Darwin was indebted to the Romantics in general and Goethe in particular.”[17] [18] Darwin had been introduced to the German accomplishments in biology, and the German ideas about philosophy of science, mainly through the work of Alexander von Humboldt.[18] [19]

Why has this influence been forgotten? “In the decade after 1918,” explains Nicholas Boyle, “when hundreds of British families of German origin were forcibly repatriated, and those who remained anglicized their names, British intellectual life was ethnically cleansed and the debt of Victorian culture to Germany was erased from memory, or ridiculed.”[19] [20] To some extent, this process had already started since the outbreak of the First World War.

This intellectual ethnic cleansing would not go unreciprocated. In 1915’s Händler und Helden (Merchants and Heroes), German economist and sociologist Werner Sombart attacked the “mercantile” English scientific tradition. Here, Sombart is particularly critical of what he calls the “department-store ethics” of Herbert Spencer, but in general Sombart calls for most English ideas – including English science – to be purged from German national life. In his writings on the philosophy of science, Spengler would answer this call.

Spengler heavily drew on the ideas of Goethe, and evidently also on the views of a pre-Darwinian French Lutheran paleontologist of German origin, Georges Cuvier. For instance, Spengler’s assault on universalism in the physical sciences mostly comes from Goethe, but his rationale for rejecting Darwinian evolution appears to come from Cuvier. The idea that life-forms are immutable, and simply die out, only to be superseded by unrelated new ones – a persistent theme in Spengler – comes more from Cuvier than Goethe.

oswSP-car.jpgCuvier, however, does not belong to the German transcendentalist tradition, so Spengler mentions him only peripherally. On the other hand, in the third chapter of the second volume of The Decline of the West, Spengler uses a word that Charles Francis Atkinson translates as “admitted” to describe how Cuvier propounded the theory of catastrophism. Clearly, Spengler shows himself to be more sympathetic to Cuvier than to what he calls the “English thought” of Darwin.[20] [21]

Several asides about Cuvier are in order. First of all, this criminally underrated thinker is by no means outmoded, at least not in every way. Modern geology operates on a more-Cuvieran-than-Darwinian plane.[21] [22] Secondly, it is worth noting that Ernst Jünger once astutely observed that Cuvier is more useful to modern military science than Darwin.[22] [23] It may also be of interest that the Cuvieran system is even further removed from Lamarckism – and its view of heredity, as a consequence, more thoroughly racialist – than the Darwinian system.[23] [24]

Another scientist of German origin who may have influenced Spengler is the Catholic monk Gregor Mendel, the discoverer of what is now known as genetics. One biography notes:

Though Mendel agreed with Darwin in many respects, he disagreed about the underlying rationale of evolution. Darwin, like most of his contemporaries, saw evolution as a linear process, one that always led to some sort of better product. He did not define “better” in a religious way – to him, a more evolved animal was no closer to God than a less evolved one, an ape no morally better than a squirrel – but in an adaptive way. The ladder that evolving creatures climbed led to greater adaption to the changing world. If Mendel believed in evolution – and whether he did remains a matter of much debate – it was an evolution that occurred within a finite system. The very observation that a particular character trait could be expressed in two opposing ways – round pea versus angular, tall plant versus dwarf – implied limits. Darwin’s evolution was entirely open-ended; Mendel’s, as any good gardener of the time could see, was closed.[24] [25]

How very Goethean – and Spenglerian.

His continuation of the German mission against English science explains, even if it does not entirely excuse, Spengler’s citation of Franz Boas’ now-discredited experiments in craniology in the second volume of The Decline of the West. In his posthumously-published book on Indo-Europeanology, the unfinished but lucid Frühzeit der Weltgeschichte, Spengler cites the contemporary German Nordicist race theorist Hans F. K. Günther in writing that “urbanization is racial decay.”[25] [26] This would seem quite a leap, from citing Boas to citing Günther. However, in the opinion of one historian, Boas and Günther had more in common than they liked to think, because they were both heirs more of the German Idealist tradition in science than what the Anglo-Saxon tradition recognizes as the scientific method.[26] [27] Spengler must have keenly detected this commonality, for his views on racial matters were never synonymous with those of Boas, any more than they were identical to Günther’s.

He probably went too far in his crusade against the Anglo-Saxon scientific tradition, but as we have seen, Spengler was not without his reasons. He was neither the first nor the greatest German philosopher of science to present alternatives to the ruling English paradigms in the sciences, but was rather an heir to a grand tradition. Before dismissing this anti-materialistic tradition as worthless, as today’s historiographers of science still do, we should take into account what it produced.

Darwin’s philosophy of nature was predominantly German; only his Malthusianism, the least interesting aspect of Darwin’s work, was singularly British. As for Einstein, that proficient but unoriginal thinker was absolutely steeped in the German anti-Newtonian tradition, to which he merely put a mathematical formula. These are only the most celebrated examples of scientists influenced by the German tradition defended – maniacally, perhaps, but with noble intentions – in the works of Oswald Spengler.

Whether we consider Spengler’s ideas useful to science or utterly hateful to it, one question remains: Should the German tradition of philosophy of science he defended be taken seriously? Ever since the post-Second World War de-Germanization of Germany, euphemistically called “de-Nazification,” this tradition is now pretty much dead in its own fatherland. But does that make it entirely wrong?

Notes

[1] [28] Luke Hodgkin, A History of Mathematics: From Mesopotamia to Modernity (Oxford: Oxford University Press, 2013).

[2] [29] See the booklet of the CD Istanbul: Dimitrie Cantemir, 1630-1732, written by Stefan Lemny and translated by Jacqueline Minett.

[3] [30] Eugenia Popescu-Judetz, Prince Dimitrie Cantemir: Theorist and Composer of Turkish Music (Istanbul: Pan Yayıncılık, 1999), p. 34.

[4] [31] Dimitrie Cantemir, The History of the Growth and Decay of the Othman Empire, vol. I, tr. by Nicholas Tindal (London: Knapton, 1734), p. 151, note 14.

[5] [32] Carl Schmitt, The Leviathan in the State Theory of Thomas Hobbes: Meaning and Failure of a Political Symbol, tr. by George Schwab and Erna Hilfstein (Chicago: University of Chicago Press, 2008), p. 8.

[6] [33] Karin Schutjer, “Goethe’s Kabbalistic Cosmology [34],” Colloquia Germanica, vol. 39, no. 1 (2006).

[7] [35] J. W. von Goethe, Faust, Part Two, Act I, “Imperial Palace” scene; Schopenhauer, The Wisdom of Life, Chapter III, “Property, or What a Man Has.”

[8] [36] Jeremy Naydler (ed.), Goethe on Science: An Anthology of Goethe’s Scientific Writings (Edinburgh: Floris Books, 1996), pp. 65-67.

[9] [37] Erich Ludendorff, The Destruction of Freemasonry Through Revelation of Their Secrets (Mountain City, Tn.: Sacred Truth Publishing), p. 53.

[10] [38] Warren Kenton, Kabbalah: The Divine Plan (New York: HarperCollins, 1996), p. 25.

[11] [39] Schmitt, Leviathan, p. 26.

[12] [40] Gottfried Feder, Manifesto for Breaking the Financial Slavery to Interest, tr. by Alexander Jacob (London: Black House Publishing, 2016), p. 38.

[13] [41] Ibid., pp. 17-18.

[14] [42] See, i.e., Walter Wili, “The Orphic Mysteries and the Greek Spirit,” collected in Joseph Campbell (ed.), The Mysteries: Papers from the Eranos Yearbooks (Princeton, N.J.: Princeton University Press, 1955).

[15] [43] Arthur Schopenhauer, tr. by E. F. J. Payne, The World as Will and Representation, vol. II (Mineola, N.Y.: Dover, 2014), p. 585.

[16] [44] Ronald Douglas Gray, Goethe the Alchemist (Cambridge: Cambridge University Press, 2010), p. 6.

[17] [45] Robert J. Richards, The Romantic Conception of Life: Philosophy and Science in the Age of Goethe (Chicago: The University of Chicago Press, 2010), p. 435.

[18] [46] Ibid, pp. 518-526.

[19] [47] Nicholas Boyle, Goethe and the English-speaking World: Essays from the Cambridge Symposium for His 250th Anniversary (Rochester, N.Y.: Camden House, 2012), p. 12.

[20] [48] Oswald Spengler, tr. by Charles Francis Atkinson, The Decline of the West vol. II (New York: Alfred A. Knopf, 1928), p. 31.

[21] [49] Elizabeth Kolbert, The Sixth Extinction: An Unnatural History (London: Bloomsbury, 2015), p. 94.

[22] [50] From Jünger’s Aladdin’s Problem: “It is astounding to see how inventiveness grows in nature when existence is at stake. This applies to both defense and pursuit. For every missile, an anti-missile is devised. At times, it all looks like sheer braggadocio. This could lead to a stalemate or else to the moment when the opponent says, ‘I give up’, if he does not knock over the chessboard and ruin the game. Darwin did not go that far; in this context, one is better off with Cuvier’s theory of catastrophes.”

[23] [51] See Georges Cuvier, Essay on the Theory of the Earth (London: Forgotten Books, 2012), pp. 125-128 & pp. 145-165.

[24] [52] Robin Marantz Henig, The Monk in the Garden: The Lost and Found Genius of Gregor Mendel, the Father of Genetics (New York: Houghton Mifflin, 2017), p. 125.

[25] [53] Oswald Spengler, Frühzeit der Weltgeschichte (Munich: C. H. Beck, 1966), Fragment 101.

[26] [54] Amos Morris-Reich, “Race, Ideas, and Ideals: A Comparison of Franz Boas and Hans F. K. Günther [55],” History of European Ideas, vol. 32, no. 3 (2006).

 

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[34] Goethe’s Kabbalistic Cosmology: https://www.jstor.org/stable/23981598?seq=1#page_scan_tab_contents

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[55] Race, Ideas, and Ideals: A Comparison of Franz Boas and Hans F. K. Günther: https://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1016/j.histeuroideas.2006.05.001

dimanche, 01 juillet 2018

De Carl Schmitt et du combat tellurique contre le système technétronique

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De Carl Schmitt et du combat tellurique contre le système technétronique

Il y a déjà cinq ans, pendant les fortes manifs des jeunes chrétiens contre les lois socialistes sur la famille (lois depuis soutenues et bénies par la hiérarchie et par l’ONG du Vatican mondialisé, mais c’est une autre histoire), j’écrivais ces lignes :

« Deux éléments m’ont frappé dans les combats qui nous occupent, et qui opposent notre jeune élite catholique au gouvernement mondialiste aux abois : d’une part la Foi, car nous avons là une jeunesse insolente et Fidèle, audacieuse et tourmentée à la fois par l’Ennemi et la cause qu’elle défend ; la condition physique d’autre part, qui ne correspond en rien avec ce que la démocratie-marché, du sexe drogue et rock’n’roll, des centres commerciaux et des jeux vidéo, attend de la jeunesse.»

L’important est la terre que nous laisserons à nos enfants ne cesse-ton de nous dire avec des citations truquées ; mais l’avenir c’est surtout les enfants que nous laisserons à la terre ! Cela les soixante-huitards et leurs accompagnateurs des multinationales l’auront mémorisé. On a ainsi vu des dizaines milliers de jeunes Français – qui pourraient demain être des millions, car il n’y a pas de raison pour que cette jeunesse ne fasse pas des petits agents de résistance ! Affronter la nuit, le froid, la pluie, les gaz, l’attente, la taule, l’insulte, la grosse carcasse du CRS casqué nourri aux amphétamines, aux RTT et aux farines fonctionnaires. Et ici encore le système tombe sur une élite physique qu’il n’avait pas prévue. Une élite qui occupe le terrain, pas les réseaux.

Cette mondialisation ne veut pas d’enfants. Elle abrutit et inhibe physiquement – vous pouvez le voir vraiment partout – des millions si ce n’est des milliards de jeunes par la malbouffe, la pollution, la destruction psychique, la techno-addiction et la distraction, le reniement de la famille, de la nation, des traditions, toutes choses très bien analysées par Tocqueville à propos des pauvres Indiens :

« En affaiblissant parmi les Indiens de l’Amérique du Nord le sentiment de la patrie, en dispersant leurs familles, en obscurcissant leurs traditions, en interrompant la chaîne des souvenirs, en changeant toutes leurs habitudes, et en accroissant outre mesure leurs besoins, la tyrannie européenne les a rendus plus désordonnés et moins civilisés qu’ils n’étaient déjà. »

Et bien les Indiens c’est nous maintenant, quelle que soit notre race ou notre religion, perclus de besoins, de faux messages, de bouffes mortes, de promotions. Et je remarquais qu’il n’y a rien de pire pour le système que d’avoir des jeunes dans la rue (on peut en payer et en promouvoir, les drôles de Nuit debout). Rien de mieux que d’avoir des feints-esprits qui s’agitent sur les réseaux sociaux.

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J’ajoutais :

« Et voici qu’une jeunesse montre des qualités que l’on croyait perdues jusqu’alors, et surtout dans la France anticléricale et libertine à souhait ; des qualités telluriques, écrirai-je en attendant d’expliquer ce terme. Ce sont des qualités glanées au cours des pèlerinages avec les parents ; aux cours des longues messes traditionnelles et des nuits de prières ; au cours de longues marches diurnes et des veillées nocturnes ; de la vie naturelle et de la foi épanouie sous la neige et la pluie. On fait alors montre de résistance, de capacité physique, sans qu’il y rentre de la dégoutante obsession contemporaine du sport qui débouche sur la brutalité, sur l’oisiveté, l’obésité via l’addiction à la bière. On est face aux éléments que l’on croyait oubliés. »

Enfin je citais un grand marxiste, ce qui a souvent le don d’exaspérer les sites mondialistes et d’intriquer les sites gauchistes qui reprennent mes textes. C’est pourtant simple à comprendre : je reprends ce qui est bon (quod verum est meum est, dit Sénèque) :

« Je relis un écrivain marxiste émouvant et oublié, Henri Lefebvre, dénonciateur de la vie quotidienne dans le monde moderne. Lefebvre est un bon marxiste antichrétien mais il sent cette force. D’une part l’URSS crée par manque d’ambition politique le même modèle de citoyen petit-bourgeois passif attendant son match et son embouteillage ; d’autre part la société de consommation crée des temps pseudo-cycliques, comme dira Debord et elle fait aussi semblant de réunir, mais dans le séparé, ce qui était jadis la communauté. Lefebvre rend alors un curieux hommage du vice à la vertu ; et il s’efforce alors à plus d’objectivité sur un ton grinçant.

Le catholicisme se montre dans sa vérité historique un mouvement plutôt qu’une doctrine, un mouvement très vaste, très assimilateur, qui ne crée rien, mais en qui rien ne se perd, avec une certaine prédominance des mythes les plus anciens, les plus tenaces, qui restent pour des raisons multiples acceptés ou acceptables par l’immense majorité des hommes (mythes agraires).

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Le Christ s’exprime par images agraires, il ne faut jamais l’oublier. Il est lié au sol et nous sommes liés à son sang. Ce n’est pas un hasard si Lefebvre en pleine puissance communiste s’interroge sur la résilience absolue de l’Eglise et de notre message :

Eglise, Saint Eglise, après avoir échappé à ton emprise, pendant longtemps je me suis demandé d’où te venait ta puissance.

Oui, le village chrétien qui subsiste avec sa paroisse et son curé, cinquante ans après Carrefour et l’autoroute, deux mille ans après le Christ et deux cents ans après la Révolution industrielle et l’Autre, tout cela tient vraiment du miracle.

Le monde postmoderne est celui du vrai Grand Remplacement : la fin des villages de Cantenac, pour parler comme Guitry. Il a pris une forme radicale sous le gaullisme : voyez le cinéma de Bresson (Balthazar), de Godard (Week-end, Deux ou trois choses), d’Audiard (les Tontons, etc.). Le phénomène était global : voyez les Monstres de Dino Risi qui montraient l’émergence du citoyen mondialisé déraciné et décérébré en Italie. L’ahuri devant sa télé…

Il prône ce monde une absence de nature, une vie de banlieue, une cuisine de fastfood, une distraction technicisée. Enfermé dans un studio à mille euros et connecté dans l’espace virtuel du sexe, du jeu, de l’info. Et cela donne l’évangélisme, cette mouture de contrôle mental qui a pris la place du christianisme dans pas le mal de paroisses, surtout hélas en Amérique du Sud. Ce désastre est lié bien sûr à l’abandon par une classe paysanne de ses racines telluriques. Je me souviens aux bords du lac Titicaca de la puissance et de la présence catholique au magnifique sanctuaire de Copacabana (rien à voir avec la plage, mais rien) ; et de son abandon à la Paz, où justement on vit déjà dans la matrice et le conditionnement. Mais cette reprogrammation par l’évangélisme avait été décidée en haut lieu, comme me le confessa un jour le jeune curé de Guamini dans la Pampa argentine, qui évoquait Kissinger.

J’en viens au sulfureux penseur Carl Schmitt, qui cherchait à expliquer dans son Partisan, le comportement et les raisons de la force des partisans qui résistèrent à Napoléon, à Hitler, aux puissances coloniales qui essayèrent d’en finir avec des résistances éprouvées ; et ne le purent. Schmitt relève quatre critères : l’irrégularité, la mobilité, le combat actif, l’intensité de l’engagement politique. En allemand cela donne : Solche Kriterien sind: Irregularität, gesteigerte Mobilität des aktiven Kampfes und gesteigerte Intensität des politischen Engagements.

Tout son lexique a des racines latines, ce qui n’est pas fortuit, toutes qualités de ces jeunes qui refusèrent de baisser les bras ou d’aller dormir : car on a bien lu l’Evangile dans ces paroisses et l’on sait ce qu’il en coûte de trop dormir !

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Schmitt reconnaît en fait la force paysanne et nationale des résistances communistes ; et il rend hommage à des peuples comme le peuple russe et le peuple espagnol : deux peuples telluriques, enracinés dans leur foi, encadrés par leur clergé, et accoutumés à une vie naturelle et dure de paysan. Ce sont ceux-là et pas les petit-bourgeois protestants qui ont donné du fil à retordre aux armées des Lumières ! Notre auteur souligne à la suite du théoricien espagnol Zamora (comme disait Jankélévitch il faudra un jour réhabiliter la philosophie espagnole) le caractère tellurique de ces bandes de partisans, prêts à tous les sacrifices, et il rappelle la force ces partisans issus d’un monde autochtone et préindustriel. Il souligne qu’une motorisation entraîne une perte de ce caractère tellurique (Ein solcher motorisierter Partisan verliert seinen tellurischen Charakter), même si bien sûr le partisan – ici notre jeune militant catholique – est entraîné à s’adapter et maîtrise mieux que tous les branchés la technologie contemporaine (mais pas moderne, il n’y a de moderne que la conviction) pour mener à bien son ouvrage.

Schmitt reconnaît en tant qu’Allemand vaincu lui aussi en Russie que le partisan est un des derniers soldats – ou sentinelles – de la terre (einer der letzten Posten der Erde ; qu’il signifie toujours une part de notre sol (ein Stück echten Bodens), ajoutant qu’il faut espérer dans le futur que tout ne soit pas dissous par le melting-pot du progrès technique et industriel (Schmelztiegel des industrielltechnischen Fortschritts). En ce qui concerne le catholicisme, qui grâce à Dieu n’est pas le marxisme, on voit bien que le but de réification et de destruction du monde par l’économie devenue follen’a pas atteint son but. Et qu’il en faut encore pour en venir à bout de la vieille foi, dont on découvre que par sa démographie, son courage et son énergie spirituelle et tellurique, elle n’a pas fini de surprendre l’adversaire.

Gardons une condition, dit le maître : den tellurischen Charakter. On comprend que le système ait vidé les campagnes et rempli les cités de tous les déracinés possibles. Le reste s’enferme dans son smartphone, et le tour est joué.

Bibliographie:

Carl Schmitt – Du Partisan

Tocqueville – De la démocratie I, Deuxième partie, Chapitre X

Guy Debord – La Société du Spectacle

Henri Lefebvre – Critique de la vie quotidienne (Editions de l’Arche)

vendredi, 29 juin 2018

Ernst Jünger: Dalle rovine della Tecnica rinascerà l’età dello spirito

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Ernst Jünger: Dalle rovine della Tecnica rinascerà l’età dello spirito

Marcello Veneziani

Ex: http://www.marcelloveneziani.com 

A leggerlo con gli occhi miopi del presente, L’operaio di Ernst Jünger sembra la grandiosa metafora dell’avvento dei tecnici al potere. Anzi il Tecnico stesso sembra l’Operaio in loden, versione estrema della borghesia che si è fatta globale e immateriale come la finanza rispetto all’epoca dell’oro e del decoro.

Ma più in profondità, lo sguardo profetico di Jünger è rivolto a un’epoca planetaria dominata dalla tecnica, che ha un esito a sorpresa rispetto alle sue premesse: la tecnica «spiritualizza la terra». Dopo gli dei, dopo il monoteismo, verrà lo Spirito, signore dell’Età dell’acquario, che appare attraverso i sogni e agisce mediante la magia.

Lo spirito verrà tramite la tecnica, scrive Jünger, nel suo linguaggio oracolare, a volte allusivo, in alcuni tratti reticente, ed esoterico. Dopo la catastrofe e in fondo al tunnel del nichilismo il suo pensiero intuitivo scorge una luce inattesa. Non la luce di un nuovo umanesimo, come pensavano da differenti postazioni i suoi contemporanei Maritain e Gentile, Bloch e Sartre. Ma un disumanesimo integrale, una sorta di superamento dell’umano e non in una dimensione sovrumana, alla Nietzsche, ma compiutamente inumana, geologica e spirituale.

In questa chiave, l’Operaio è un nuovo titano, quasi una figura mitologica, della razza di Anteo, Atlante e Prometeo, che mobilita il mondo tramite la tecnica, che è il suo linguaggio. L’operaio di Jünger – o Milite del lavoro, come preferivano tradurre Delio Cantimori e anche Julius Evola – compie 80 anni e per l’occasione esce finalmente in Italia Maxima-Minima, un libro breve e intenso che fu la prosecuzione dell’opera jüngeriana del ’32 a 32 anni di distanza, nel 1964.

Quando dirigevo da ragazzo una casa editrice, negli anni Ottanta, tentai temerariamente di farlo tradurre in Italia; ma alla Buchmesse, la Fiera del libro di Francoforte, l’agente letterario di Klett Cotta, l’editore tedesco, mi disse che quest’opera era già opzionata in Italia. Ci sono voluti quasi trent’anni per vederla alla luce ora, a cura e con la postfazione di Alessandra Jadicicco.

Un’opera oracolare di minima loquacità e massima densità, in cui si avverte il respiro della grandezza, dove l’eco dell’Operaio si mescola all’eco dello Stato mondiale, Le forbici, Al muro del tempo e altre opere jüngeriane del suo personale «Nuovo Testamento», come egli stesso diceva.

La tesi metafisica è quella: dalla Macchina, per inattese vie, sorgerà lo Spirito; il Mito, il Gioco, la Geologia e l’Astrologia lo porteranno a compimento. Ma dalla Tecnica sorge anche il nemico: laddove il tecnico «conquisti il governo politico, se non dittatoriale, grava la peggiore delle minacce».

Il condensato deteriore della tecnica è l’automatismo, che è il peggiore degli autoritarismi, un dispotismo che uccide la libertà alla radice. E qui Ernst Jünger ritrova suo fratello Friedrich Georg che alla Perfezione della tecnica e all’avvento degli automi aveva dedicato un lucido saggio, degno del suo germano (tradotto in Italia dal Settimo Sigillo nel 2000).

La tesi metapolitica di Jünger è invece l’avvento auspicato dello Stato planetario, dopo l’unificazione del mondo compiuta dalla Tecnica, di cui scriveva negli stessi anni in Italia anche Ugo Spirito. Dopo la patria il mondo intero sarà amato come «Terra Natia».
Destra e sinistra, rivoluzione e conservazione, sono per Jünger braccia di uno stesso corpo.

Ma il politico, rispetto a questi fenomeni grandiosi, è inadeguato, si occupa dell’ovvio dei popoli, si cura del successo e dell’attualità, non si sporge nell’avvenire e, a differenza dell’artista, non dispone di uno sguardo ulteriore.
La miseria della politica propizia il dominio della tecnica (sembrano glosse al presente…). A rimorchio della politica va la giustizia che «segue la politica come gli avvoltoi le campagne degli eserciti». Dei, padri, autorità, eroi tramontano nell’era in cui la prosperità cresce con l’insicurezza.

Tocca all’outsider, che Jünger aveva battezzato già l’Anarca o il Ribelle, avvertire come un sismografo il tempo che verrà. «L’amarezza riguardo ai contemporanei è comprensibile in chi ha da dire cose immense».
Pensieri lucidi e affilati come lame si susseguono nella prosa asciutta e ad alta temperatura di Jünger; a volte sfiorano la storia, i popoli, le culture, le razze.

Precorrendo o incrociando le tesi della Scuola di Francoforte e di Herbert Marcuse in particolare, Jünger nota che la nuova schiavitù e la nuova alienazione non si concentrano più nel tempo della produzione, ma nel tempo libero. La dipendenza si sposta dal lavoro al consumo. Jünger intuisce che la globalizzazione coinvolgerà non solo i popoli più avanzati, ma anche le società feudali e primitive, che rientreranno in pieno nel ciclo della tecnica: e ci pare di vedere le tigri asiatiche, la Cina, l’India e la Corea nel suo sguardo profetico.

Jünger critica la pur grandiosa morfologia della civiltà di Oswald Spengler e incontra invece il nichilismo attivo e poetico di Gottfried Benn e soprattutto il pensiero di Martin Heidegger, che a sua volta studia e fa studiare nei suoi seminari L’operaio e per altri sentieri raggiunge la stessa radura di Jüger, al di là dell’umano.

Ho letto in questi giorni, accanto a Jünger, gli appunti heideggeriani raccolti sotto il titolo La storia dell’Essere dove si respira in altre forme e linguaggi la stessa aria jüngeriana: il dominio planetario della tecnica, la rivoluzione conservatrice, il realismo eroico, il potere di cui i potenti sono esecutori e non dignitari, la guerra e la mobilitazione, la scomparsa dell’umano.

E affiora esplicito il nome di Jünger. Sullo sfondo, come un’allusione che vuol restare in ombra, la tragedia della Germania e dell’Europa.
Quel che alla fine apre all’apocalittico Jünger uno spiraglio di luce nella notte è l’Amor fati, l’accettazione istintiva del destino.

«Tutto ciò che accade è adorabile» scrive Jünger citando Leon Bloy. E una leggera euforia attraversa il paesaggio catastrofico, quasi una musica sorgiva tra le rovine e gli automi.

MV, Il Giornale 2 aprile 2012

 

dimanche, 24 juin 2018

Jesús Lorente sobre Weimar

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III Encuentro Literario Editorial EAS

Jesús Lorente sobre Weimar

Conferencia de Jesús Lorente sobre Weimar, con introducción de Francisco José Fernández-Cruz Sequera, para el III Encuentro Literario de la Editorial EAS, en Madrid el 5 de mayo de 2018.
 

vendredi, 25 mai 2018

Spengler's "Der Mensch Und Die Technik" / Troy Southgate

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Spengler's "Der Mensch

Und Die Technik"

Troy Southgate

 
Troy Southgate's speech about Oswald Spengler's
"Der Mensch Und Die Technik" @ International N-AM Conference
in Madrid 17th and 18th june 2017.
 
More info : www.national-anarchist.net
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mardi, 01 mai 2018

The Winter of Spengler’s Discontent

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The Winter of Spengler’s Discontent

 
The decline of Spengler: reconsidering High Cultures
 
Ex: http://westdest.blogspot.com
 
It has been decades since I last tackled Oswald Spengler, and it seemed time to refresh my understanding of his major work.  Upon the advice of a Spengler expert (and following the Pareto Principle), I acquired the abridged edition of The Decline of the West.
 
OSPb1.jpgFirst, a few words about Spengler’s writing in this book, which I found to be terrible: like Heidegger, overly dense and sometimes nearly incomprehensible in the pompous old school German style (in contrast, Nietzsche, particularly apart from Zarathustra, was exceedingly comprehensible and easily understandable).  Contrary to all of Spengler’s breathless fans, I did not find his magnum opus to be very well written.  It’s a terribly boring, turgid compilation of rambling prose.  I can only imagine the full-scale version is worse (and if memory serves, it was). Another point is that Spengler’s deconstructivism is highly annoying to the more empiricist among us, his idea that Nature is a function of a particular culture.  Well (and the same applies to some of Yockey’s [plagiarized] rambling on the subject), for some cultures, Nature apparently is a more accurate “function” of reality than for others, and this more accurate representation of objective reality has real world consequences that cannot be evaded.
 
Thus, Spengler’s rambling on “Nature Knowledge” can be for the most part safely ignored.  Spengler laughably wrote: “Every atomic theory, therefore, is a myth, and not an experience.”  Yes, tell that to the Japanese of Hiroshima and Nagasaki, who encountered the myth – not the experience, oh no! – of being blasted by atom bombs.  Spengler’s comments about the “uranium atom” are particularly ludicrous in hindsight. I have to say: Spengler was an idiot (*).
 
The problem with Spengler (and Yockey) and science is that the Spenglerian view could be tenable if science was only a purely abstract phenomenon, with no practical real world consequences.  Unfortunately, for Spengler, science leads to technics, and the outcome of technics (contra Yockey) is directly related to the reality behind the science.  In the absence of real world consequences, in the absence of technics, the Spenglerians can pretend that there is no objective difference between, say, Classical or Egyptian physics on the one hand, and Faustian physics on the other. However, the former, if followed to technics, will not lead to methods that can obliterate cities, shatter mountains, and sink islands; while the latter can, and has.  Facts are facts. “Theory is working hypothesis…” according to Spengler’s formulation of Faustian technics, but that can be just as easily reversed: the working hypothesis is based upon theory.  Without scientific theory, practical technics is mere makeshift tinkering.
 
OSPb2.jpgThe sections “Race is Style” and “People and Nation” are of course relevant from a racial nationalist perspective, and reflects Spengler’s anti-scientific stupidity, this time about biological race.  Those of you familiar with Yockey’s wrong-headed assertions on this topic will see all the same in Spengler’s work (from which Yockey lifted his assertions).  This has been critiqued by many – from Revilo Oliver to myself – and it is not necessary to rehash all of the arguments against the Spenglerian (Boasian) deconstructivist attitudes toward biological race.  We can just shake our heads sadly about Spengler’s racial fantasies – that is as absurd as that of any hysterical leftist SJW race-denier – and move on to other issues.
 
The comments by Spengler (and others) about the Russian soul and Russian character, and its “non-Faustian” nature (‘the horizontal expansive plain…the plain, the plain….”) are interesting, and may well have some validity (as a close look at Russian literature informs us, to some degree).  But this can all be taken too far.  With the benefit of hindsight obviously not available to Spengler himself – but which is just as obviously available to modern-day Spenglerians – we look at the Russian interest in space exploration, particularly during the Soviet period, and ask – was that merely just for political propaganda purposes?  The answer is not quite clear.  There are differences between cultures, yes, but when there is an underlying racial affinity, then the different cultures are not quite orthogonal to each other.  And the same principle applies to the Classical-Faustian distinction as well. Spengler would argue that the Classical and Faustian are as different from each other than either are to, say, the Chinese, Indian, or Egyptian.  I think that’s nonsense, and the same applies to Russian-Faustian/Western.  There are differences and then there are DIFFERENCES.  Being more objective about Spengler’s ideas than Spengler himself, I hope the “differences between differences” are obvious.
 
The section on “State and History” was actually readable and made some valid points, but I disagree with Spenglerian inevitability, and I believe he draws the line of the Fellah stage too early in some historical cases. The high point of the Roman Empire, the Pax Romana – was a historyless desert?  Spengler, I think, became too enamored with his own theories (or nonsense, if you want to be harsh).  The “Philosophy of Politics” section is also readable, with some useful points, but also has, obviously, areas of profound disagreement between Spengler and reality.  The idea that the “born statesman” has – or should have - no convictions, should be a completely amoral actor dealing with facts and effects with no ideology affecting their actions - that I reject. Who is or is not a “born statesmen?”  The examples Spengler gives are ludicrous given his assertion. Sulla, Robespierre, Bismarck, and Pitt – they all acted with no underlying ideology or conviction influencing their actions?  I will say his comments about the value of a “tradition” in politics, statesmanship, in fact in any manifestation or organized human activity (comments mirrored by Yockey), are basically sound. Again, in reading Spengler, there are some diamonds in the piles of dirt and dung; one has to dig them out and treasure them.  However, the diamond-to-dung ratio is not enough to grant Spengler the acclaim as a “great writer.” While Spengler and his ideas have worth, whether or not we agree with all of them, I wonder if he may not be one of the most over-rated writers in history.
 
OSPb3.jpgThose are mere details however.  Important details, but not the fundamental, the main thesis.  So, what about the main thesis of his work?  The overall idea of cyclical history?  Yockey’s lifting of that idea in his own work?  Rereading Spengler’s major thesis hasn’t changed my mind about it in any major way, but there are some further points to make.
 
To begin with, I do believe that Spengler was on to something; his most fundamental observations about the cyclical nature of High Cultures, in their broadest sense, have validity.  I reject his self-assured assertions about inevitability and his smug and snide pontification about the emptiness of current and future cultural possibilities, as well as his complete lack of self-awareness of the effects of his fundamental observation on the ability of future generations to interfere with what was previously a completely unguided historical process.  By analogy, before the germ theory of infectious disease was asserted, and then proven as fact, man was for the most part helpless against the onslaught of microbes, apart from the natural and (by conscious thought) unguided processes of the human immune system.  After the discovery of the germ-disease link, we have preventive and therapeutic interventions against these diseases.  Furthering this analogy, we can say that before Spengler, man was helpless in the face of historical inevitability; after Spengler and his discovery, the situation is changed.
 
Another point: being more familiar with Yockey’s work than with Spengler’s, I note how much Yockey plagiarized from Spengler.  Everyone talks about Yockey plagiarizing Carl Schmitt, and that Spengler “inspired” Yockey  - well, if by “inspired” you mean ruthlessly copy than, yes, Yockey was very “inspired.”  However, I do not say that to disparage Yockey or Imperium, the work which contains most of the plagiarism in question.  Yockey was a political polemicist, and Imperium was meant to be a thoroughly political work, sort of a Communist Manifesto for fascists, it wasn’t meant as a scholarly work and Yockey made no pretense of any original thought in that book. So, I just note for the record that the plagiarism took place.  I also note that, in a real sense, it is good that the plagiarism did take place, because Imperium is much more readable, much more digestible, than Spengler’s ponderous work, which is, as stated above, a caricature of “heavy” self-indulgent pedantic German scholarship.  Spengler’s views on (biological) race, as derived from his statements in this book, were as wrong-headed as Yockey’s regurgitation of them.  But enough of that; it is a side-issue at this time, and has been already discussed, by myself and (many) others, with respect to Imperium.
 
OSPb4.jpgLet’s get back to Spengler’s content, and some of my objections alluded to above.  Thus, as far as content goes, my “take” on it remains the same; I agree with much but I disagree with much as well, particularly the “pessimistic” inevitability of it, and the smug arrogance in suggesting, or implying, that disagreement with that aspect of the work implies some sort of mental weakness, delusion, or cowardice on the part of the reader.  Spengler himself suggests that he “truth” of the book is a “truth” for him, a “truth” for a particular Culture in a particular time, and should not necessarily be viewed as an absolute truth in any or every sense (indeed, it everything from science to mathematics is, according to Spengler, formed by the Culture which creates it, and is thus no absolute in any universal sense, then we can quote Pilate ‘“what is truth?”).  Therefore, my “truth” in the current year leads me to conclusions different from Spengler; one can again assert that Spengler himself, by writing the book and outlining he problem, himself undermined his assertion of inevitability, since know we can understand the trajectories of Cultures and, possibly, how to affect those trajectories.
 
I’ll have more to say about that shortly.
 
One thing about re-reading the book that did influence me – more of a minor point – is that I’m now more in agreement (although not totally in agreement) with Spengler that the Classical Culture was quite different from out Western Faustian one.  There was always a sense of a different style, a different mindset, a different worldview, but The Decline of the West, and the evidence Spengler presents, helps clarify the Classical-Faustian distinction and brings it into stark relief.  So, yes, there’s more to that issue than I previously thought.  However, it doesn’t’ change the fact that both the Classical and the Faustian (or Western) High Cultures came into being in Europe, created by Europeans, and, therefore, if we accept one aspect of Spenglerian inevitability – the actual “decline of the West” – and indeed we appear to be ahead of schedule, well into Winter, then we can discard other aspects of inevitability and assert that Europe and Europeans are well capable of creating other High Cultures.
 
So, I will say that Spengler exaggerates the Classical-Faustian divide, even though I’m a bit more supportive of his views on that than before.  There is an intermediate ground between saying the two Cultures are completely and utterly distinct entities with absolutely no connection and saying that the Faustian is merely an outgrowth of the Classical.  On a side note, as a result of re-reading Spengler, I’m now studying the last period of the Western Roman Empire, from Adrianople to Odoacer, to (1) examine the parallels to our own day, (2) discern the “breaking point” where the last vestiges of the Classical World died out (What happened? How?  What came after, what was the result?), and (3) to re-examine stupid “movement” dogma on how the later Empire was becoming ever more decadent as a result of racial changes (if anything, the later Empire was more moral than before).
 
OSPb5.jpgThat is related to an important deficit in the work of Spengler that I have read.  He describes the lifecycle of High Cultures, but never really dissects why the cultures inevitably (or so he says) move from Culture to Civilization to Fellahdom.  What actually are the mechanistic causes of Spring to Summer to Fall to Winter?  I guess that Spengler (and Yockey) would just say that it is what it is, that the Culture is life an organism that grows old and dies.  The problem is that this analogy is just that, an analogy.  A Culture is composed of living organisms, humans, but is itself not alive. And esoteric rambling about a “cosmic beat” explains nothing.  If ones buys into the Spenglerian premise, then some rigorous analysis as to why High Cultures progress in particular ways is necessary.  We need an anatomical and molecular analysis of the “living organism” of the High Culture. Does Frost’s genetic pacification play a role? The cycle, noted by Hamilton, of barbarian invasions, the influx of altruism genes, followed by the aging of the civilization at which point fresh barbarian genes are required to spark a renaissance in the depleted fellhahs?  The moral decay that occurs with too much luxury, too much wealth, too much power?  A form of memetic exhaustion?  
 
By analogy to the memetic exhaustion hypothesis, consider successful television shows.  Although a few of these have been unusually very long lasting – but even these eventually do go off the air – the vast majority follow a trajectory of a lifespan of, say, half-a-dozen years or so.  In the first season of a successful show, there is freshness and novelty, experimentation with plotlines and characters, some unevenness, but excitement and the growth of a fan base.  Then the show reaches a crest wave of success – compelling storylines, solid character development, a strong fan base. This is followed by a bit of stagnation, attempts are made to shake things up, introducing new characters, altering the basic storyline, which may well cause a secondary, shorter spike in interest (Caesarism?), followed by “jumping the shark,” actors leaving the show, stale and repetitious stories, flat characters, a loss of interest of the fan base, decline, and eventual cancellation.  At some point, the show exhausts the memetic possibilities of its setting, characters, and fundamental storyline, and the “magic” is lost.  Does a Culture likewise exhaust all the possibilities of its actualization?  But unlike a TV show, where the station and the show writers (and the fans and reviewers) are consciously following the show’s trajectory and ratings, a High Culture is, or has been, independent of such analysis and direction.  In what way does memetic exhaustion promote the next phase of development?  Further, given Spengler’s identification of the cycle, does this now mean that a High Culture can be tracked analogous to a defined cultural artifact, like a TV show?  If so, how?  Can an elite consciously and directly alter a culture’s direction?  Can they “cancel” it and create a new one?  These are questions that require the rigorous analysis of mechanism previously stated as being required.
 
What about moving forward?
 
ospb6.jpgI maintain that those of us in the interregnum between High Cultures have the power to shape the next High Culture to come, to plant the seed, to choose the specific seed to plant, to nurture it as it grows up toward the sun.  Analogous to lucid dreaming, in our awareness of the Spenglerian thesis – to the extent that it is true – we can guide what was in the past an unconscious and organic flowering, speed it up, and mold it in particular directions.  Obviously, the extent of this control is limited; one cannot “preplan” an entire High Culture in advance, but one can influence its direction, and get it jumpstarted. Imagine some asteroid or comet hurtling toward Earth; if you can deflect it just a small bit, when it is far enough away, that small deflection will become amplified over time, over the long distances it travels at great speeds, and it would them miss the Earth by a healthy margin.  Giving a “nudge” in the right direction at the very beginning of a High Culture’s flowering can be enough, over time, to create a path along which it will develop.  The exact outcome, the precise path, cannot be determined or even precisely predicted, but the general direction, the overall constraints of a set of possible paths, I believe can be determined and predicted.  You might not be able to pinpoint a direction to the precision of saying, “we’re going to Boston” but perhaps to the extent of “we are going to the Northeast United States.”  And that would be enough.
 
In any case, imagine a person, or group of people, and here I mean our people, who today or tomorrow (broadly defined) wish to create cultural artifacts.  And this culture creation can be of our current Western Faustian High Culture or some new one to come.  Very well.  Should they refrain from doing so simply because Spengler insisted that the time of culture was over, and we should now be concerned only with technics and conquest?  When Spenglerism takes itself too seriously, it descends into absurdity.  It is best thought of as possible guidance, as broad outlines, as description – but not any sort of definitive absolute prescription.
 
By the way, having a European Imperium – which Spenglerians would say is a marker of late Civilization – is not in my opinion in any way incompatible with the creation of a new High Culture.  After all, some Spenglerians are fond of telling us that a new High Culture is likely to come from Russia, and Russia is, as many Duginite Russian “nationalists” like to tell us, an empire.  So massive states, including multiethnic empires, can very well be the wellsprings of new cultures.  We shouldn’t confuse surface political forms with the underlying cultural realities.
 
ospb7.jpgSpeaking of Russia, another part of Spengler’s work that I found reasonably well argued and somewhat convincing (as well as fairly novel) is his idea of applying the concept of pseudomorphosis to human populations. In particular, one cannot really dispute some of his points about the Magian and Russian cultures in this regard, but when he says that Antony should have won at Actium – what nonsense is that?  So, that Rome should have become more tainted with Near Eastern cults and ideas even more than it was?  What’s the opposite of pseudomorphosis – where a Civilization becomes memetically conquered by a meme originating from a young Culture?  How did the memetic virus of Christianity infect the West?  Wouldn’t it have been worse if Actium was won by the East?  When Spengler writes of “syncretism” he begins to touch upon this reversal, which eventually goes in both directions (and as Type I “movement” apologists for Christianity like to tell us, that religion was eventually “Germanized” in the West).
 
Speaking of Christianity, Spengler’s comments about Jesus are interesting, but in my opinion too naive and too positive.  Yes, the meeting between Jesus and Pontius Pilate was world historical and meaningful; however, I view it from the Pilate perspective rather than, as Spengler does, the Jesus perspective.  Spengler takes his own view too seriously in the sense that – and the Antony-Actium thing fits here – and he seems to think that we all need to look from the viewpoint of “what was best for the new Magian High Culture?”  Personally, I could care less – I care about – only care about – those High Cultures of racially European origin (Classical, Faustian, Russian, and what comes next for the West).  Let the Magians worry about the Magian.  What? The poor little NECs were suppressed by the Classical?  Too bad. Who cares about them?  Spengler rightfully outlines how alien the Magian worldview is from the Faustian; thus, why should Faustian peoples care about Magians or follow a Magian religion like Christianity?
 
Spengler’s basic, fundamental thesis is novel and powerful: the idea of a series of High Cultures, moving in parallel with similar life morphologies.  But he went too far, arrogantly casting his idea with the aura of rigid inevitability – neglecting that the very act of identifying and evaluating the phenomenon, and doing so as part of a history-obsessed Faustian High Culture, forever destroyed a basic prerequisite of the phenomenon’s previous record of repeatability; i.e., that it was unknown and ahistorical.  Ironically, Spengler’s own observations are a major reason why the patterns he observed are no longer inevitable, or, perhaps better said no longer immune from intentional manipulation and control.  When the process was unknown, unidentified, and occurring in the background independent of direct human perception, it was beyond control, once identified and classified, that no longer necessarily holds.  
 
Let’s reconsider the analogy I made above, about the discovery of the germ theory of disease.  Before discovery, there was inevitability of certain events; with vaccination, that no longer holds.  Smallpox epidemics are no longer inevitable.  Even if the decline of the West (which has already occurred) is not stoppable, the idea that rollover to the next European High Culture is beyond control has been refuted by the knowledge gained by Spengler’s own analysis.  Spengler himself is responsible for eliminating the clockwork inevitability of his system.  What kind of “Fellah” status can a people really have once they – or at least their intellectual elites – are aware of Spenglerism?  Is a “Fellah” aware of their “Fellahsm” really “Fellah” anymore?  Or is that an oxymoron?  The Spenglerian Cycle can occur in its previously manifested form only when its actors – human actors in various cultures and civilizations and post-civilizations – are not consciously aware of its workings.  Once aware, the illusion of inevitability fades, once aware, and awareness manifested in those with a will to power, the knowledge becomes a tool and the Cycle becomes amenable to manipulation and direction.  Spengler’s work was based on the analysis of High Cultures that were to a very basic extent unaware of their own existence in these terms, unable to look at themselves objectively from “outside.”  That is no longer the case.
 
ospb8.jpgAnd if Spengler’s main thesis is flawed by its own self-realization, what can one say about his side ideas?  Those, particularly dealing with science, are absolute hogwash.  In that sense, Spengler is over-rated, never mind his poor writing, including his horrifically turgid style.  Yockey may have been offended by this “blasphemy” against his idol – “The Philosopher of History” – but it is nevertheless warranted.
 
Do I recommend The Decline of the West to the reader?  No.  As per the Pareto Principle, just read Imperium, which will take 20% of your effort and give you 80% of Spenglerism.
 
Notes:
 
*A particularly retarded footnote: “And it may be asserted that the downright faith that Haeckel, for example, pins to the names atom, matter, energy, is not essentially different from the fetishism of Neanderthal Man.”
 
Yeah, that’s great Oswald, you pompous semi-Jewish purveyor of ponderous Teutonic rumblings.  Too bad this idiot wasn’t around in the 1950s; they could have tied him to the Castle Bravo thermonuclear device and he could have experienced the “downright faith” that what he was about to experience was just the subjective interpretation of the Faustian High Culture.  Oswald would have been deconstructed indeed!
 
And for those who wish to take the Yockeyian line that technics is separate from scientific theory - that is nonsense.  The technics of nuclear power or GPS systems require an understanding of the underlying physics; the technics of CRISPR requires an understanding of the biological principles involved.  Can you train someone to use those technics, at a low level, without understanding the science?  Of course you can, but what’s the point?  Someone can read a history book without knowing Spengler, someone can fix a car engine without knowing about internal combustion.  But you cannot construct, refine, improve, or replace with something superior a technic without knowing the principles behind it. Read up on the difficulties nations had in figuring out how to get thermonuclear weapons to work (and, no, it’s not that you stick a tank of hydrogen behind an atom bomb) and you’ll understand how integral theory is for getting the technics to work and keep working.  It doesn’t take an understanding of nuclear physics to drop the bomb; however, it does require such an understanding to invent the bomb to begin with.
 
Further:
 
I can’t help notice that the buffoon Chad Crowley cites Spengler to support some of his viewpoints, even though Spengler’s fundamental thesis was that ALL High Cultures have an innate tendency to travel along the same socio-economic-politico-religious trajectory; the case of Rome is not unique, and “racial degeneration” by no means needs to be invoked to explain any of the broader changes that, according to Spengler, were destined to occur there as in any other culture he studied.

lundi, 26 mars 2018

An evocation of Ludwig Klages

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An evocation of Ludwig Klages

by Thierry Durolle

It is important for the militants of the Greater Europe to possess a philosophical background which enables them to build or comfort a proper Weltanschaaung. One important understanding, we believe, is the antagonistic relationship between the philosophie des Lumières and the (neo) romantic movement. The latter was embodied by a lot of different thinkers and writers, most of them being German.

Some of us would think that Friederich Nieztsche would represent the zenith of  this movement, whose ideas would consist of a « surhumanism », as per the Italian thinker Giorgio Locchi’s writtings. For sure Nietzsche is a good start so to speak and he obviously influenced and will influence a lot people out there. Thinking of Nietzsche’s heirs, the names of Oswald Spengler and Ludwig Klages immediately come to mind. If the first one became famous with his Decline of the West, Ludwig Klages remains quite unknown to some.

LK-buch.jpgLudwig Klages was a one-of-a-kind brilliant man who is firstly known for his graphology work. But it is his philosophical work especially which deserves our attention. In fact, Klages belongs to what used to be called Lebensphilopsohie, a term that applies to Nietzsche’s. One thing they share is this dionysiac view on life which is often called « biocentric » when applied to Klages’ philosophy. His anti-christianity is another common point with Friedrich Nietzsche, and the same goes for a genre of paganism, or pantheism, shared by both philosophers.

Nevertheless, Nietzsche’s famous concept of Wille zur Macht (Will to Power), a concept often misunderstood, does not meet Ludwig Klages’ approval. Indeed, he considers it to be a spark which lit the fire of modern technician craziness - working hand in hand with the worst kind of capitalism at some point. For if Klages is against capitalism, in a wider view, he is against liberalism in general. One important criticism he addresses to both technician and capitalist systems is the destructive effect they both exert on nature.

Ludwig Klages is to be considered as a pioneer of ecology. In 1913, he delivered a speech which was later turned into a small book called Man and Earth. In his speech, Klages foresaw the future devastation caused by capitalism on nature such as the animal extinction, the alienation of the producer/consumer system and even mass tourism. This text must be read by any Right-Wing ecologist.

Thanks to Arktos, glimpses of Ludwig Klages work are now available to the public in English in the form of two books. The first one - entitled Ludwig Klages The Biocentric Worldview - consists of a collection of selected texts which stress the author’s biocentrism. The second one - Ludwig Klages Cosmogonic Reflections - is a collection of aphorism. Both books contain foreword by Joseph D. Pryce who excellently introduce the reader to Ludwig Klages. The reading of Ludwig Klages texts completes those written by Nietzsche and Spengler in a poetic manner typical of Germany’s best authors.

lundi, 19 mars 2018

L'oeuvre de Carl Schmitt, une théologie politique

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L'oeuvre de Carl Schmitt, une théologie politique

L’auteur examine en quatre chapitres l’impact de celle-ci.

hm-lcs.jpgLa leçon de Carl Schmitt

Heinrich Meier

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L’auteur examine en quatre chapitres l’œuvre de Carl Schmitt, en montrant que ce qui l’unifie, c’est qu’elle constitue une «théologie politique». Toutefois, il faut se reporter à la fin de l’ouvrage pour comprendre ce qu’il faut entendre par ce terme. Dans la dernière partie du livre, l’auteur propose une rétrospective sur «la querelle de la théologie politique», qui permet de mieux comprendre le sens de cette expression utilisée dans le reste de l’ouvrage. Il y montre que si l’on interprète souvent l’expression de «théologie politique», à partir des textes mêmes de l’œuvre de Schmitt, comme «une affirmation relevant de l’histoire des concepts ou plutôt une hypothèse de la sociologie de la connaissance qui traite des «analogies de structures» entre des disciplines et des «transpositions» historiques» (p256), on restreint la portée et l’importance de ce concept que l’auteur estime central dans la pensée de Schmitt. Certes, C. Schmitt, évoquant une «théologie politique» a bien l’idée que des juristes ont transféré les concepts théologiques, comme celui de la toute-puissance de Dieu, sur le souverain temporel, dans les Temps modernes. Mais pour lui, la «théologie politique» désigne aussi, derrière cette opération de transfert, la volonté de ces juristes de répondre en chrétien à l’appel de l’histoire en «montrant le chemin à suivre pour sortir de la guerre civile confessionnelle.» Leur entreprise de sécularisation n’était pas portée par des intentions antichrétiennes, mais, bien au contraire, inspirée chrétiennement. Jean Bodin et Thomas Hobbes par exemple, que Schmitt désigne comme «ses amis», se tinrent, dans l’interprétation qu’il en donne, «solidement à la foi de leurs pères, et cela pas seulement de manière extérieure» (p261). Autrement dit, plus qu’un transfert de fait et historiquement repérable, la théologie politique désignerait pour Schmitt une attitude dans laquelle c’est à la politique de remplir une mission héritée de la religion, dans un monde qui se sécularise ou qui s’est sécularisé. La sécularisation, qui advient de fait, doit être gérée dans une intention qui demeure animée par la foi chrétienne. De là résulte entre autre que le critère du politique manifesté par la distinction entre ami et ennemi renvoie, pour l’auteur, en dernière analyse à l’opposition entre Dieu et Satan.

Chapitre 1: la réflexion schmittienne sur la morale

Dans le premier chapitre, centré sur la réflexion schmittienne sur la morale, l’auteur commence par montrer quel tableau –qui l’indigne– Schmitt dresse de son époque: un monde vivant aux pulsations de l’entreprise commerciale, rongé progressivement par la sécularisation et l’abandon de la foi, la démesure des hommes qui en «substituant à la providence les plans échafaudés par leur volonté et les calculs de leurs intérêts, pensent pouvoir créer de force un paradis terrestre dans lequel ils seraient dispensés d’avoir à décider entre le Bien et le Mal, et duquel l’épreuve décisive serait définitivement bannie.» (p15). La science elle-même n’est pour Schmitt que «l’auto-divination contre Dieu». Et Schmitt rejette ces formes d’auto-habilitation, par lesquelles l’homme prétend s’émanciper du Dieu transcendant.

Or, ce que souligne l’auteur, c’est que c’est chez Bakounine que Schmitt trouve en quelque sorte le paradigme de cette rébellion et de cette défense de la désobéissance, contre le souverain et contre Dieu. Bakounine en effet «conteste l’objet de la conviction la plus intime de Schmitt. Il attaque la révélation et nie l’existence de Dieu; il veut supprimer l’Etat et nie l’universalité revendiquée par le catholicisme romain.» (p19) ( «Dieu étant tout, le monde réel et l’homme ne sont rien. Dieu étant la vérité, la justice, le bien, le beau, la puissance et la vie, l’homme est le mensonge, l’iniquité, le mal, la laideur, l’impuissance et la mort. Dieu étant le maître, l’homme est l’esclave. Incapable de trouver par lui-même la justice, la vérité et la vie éternelle, il ne peut y arriver qu’au moyen d’une révélation divine. Mais qui dit révélation, dit révélateur, messies, prophètes, prêtres et législateurs inspirés par Dieu même; et ceux-là une fois reconnus comme les représentants de la divinité sur terre, comme les saints instituteurs de l’humanité, élus par Dieu même pour la diriger dans la voie du salut, ils doivent nécessairement exercer un pouvoir absolu. Tous les hommes leur doivent une obéissance illimitée et passive, car contre la Raison Divine il n’y a point de raison humaine, et contre la Justice de Dieu, point de justice terrestre qui tienne. Esclaves de Dieu, les hommes doivent l’être aussi de l’Eglise et de l’Etat, en tant que ce dernier est consacré par l’Eglise.» Mikhaïl Bakounine, Dieu et l’Etat). La devise «Ni Dieu ni maître» affiche le rejet de toute forme d’obéissance et détruit les fondements classiques de l’obéissance dans la culture européenne d’après Schmitt. Pour Bakounine, la croyance en Dieu est la cause de l’autorité de l’Etat et de tout le mal politique qui en procède. D’ailleurs Schmitt reprend à Bakounine l’expression de «théologie politique» que ce dernier emploie contre Mazzini. Pour Bakounine, le mal vient des forces religieuses et politiques affirmant la nécessité de l’obéissance et de la soumission de l’homme; alors que pour Schmitt – et dans une certaine tradition chrétienne – le mal provient du refus de l’obéissance et de la revendication de l’autonomie humaine.

cs-car.jpgChez ces deux auteurs, politique et religion sont mises ensemble, dans un même camp, dans une lutte opposant le bien au mal, même si ce qui représente le bien chez l’un représente le mal chez l’autre. Pour Schmitt, dans ce combat, le bourgeois est celui qui ne pense qu’à sa sécurité et qui veut retarder le plus possible son engagement dans ce combat entre bien et mal. Ce que le bourgeois considère comme le plus important, c’est sa sécurité, sécurité physique, sécurité de ses biens, comme de ses actions, «protection contre toute ce qui pourrait perturber l’accumulation et la jouissance de ses possessions» (p22). Il relègue ainsi dans la sphère privée la religion, et se centre ainsi sur lui-même. Or contre cette illusoire sécurité, Schmitt, et c’est là une thèse importante défendue par l’auteur, met au centre de l’existence la certitude de la foi («Seule une certitude qui réduit à néant toutes les sécurités humaines peut satisfaire le besoin de sécurité de Schmitt; seule la certitude d’un pouvoir qui surpasse radicalement tous les pouvoirs dont dispose l’homme peut garantir le centre de gravité morale sans lequel on ne peut mettre un terme à l’arbitraire: la certitude du Dieu qui exige l’obéissance, qui gouverne sans restriction et qui juge en accord avec son propre droit. (…) La source unique à laquelle s’alimentent l’indignation et la polémique de Schmitt est sa résolution à défendre le sérieux de la décision morale. Pour Schmitt, cette résolution est la conséquence et l’expression de sa théologie politique» (p24).). Et c’est dans cette foi que s’origine l’exigence d’obéissance et de décision morale. Schmitt croit aussi, comme il l’affirme dans sa Théologie politique, que «la négation du péché originel détruit tout ordre social».
Chez Schmitt, derrière ce terme de «péché originel», il faut lire la nécessité pour l’homme d’avoir toujours à choisir son camp, de s’efforcer de distinguer le bien du mal («Seule une certitude qui réduit à néant toutes les sécurités humaines peut satisfaire le besoin de sécurité de Schmitt; seule la certitude d’un pouvoir qui surpasse radicalement tous les pouvoirs dont dispose l’homme peut garantir le centre de gravité morale sans lequel on ne peut mettre un terme à l’arbitraire: la certitude du Dieu qui exige l’obéissance, qui gouverne sans restriction et qui juge en accord avec son propre droit. (…) La source unique à laquelle s’alimentent l’indignation et la polémique de Schmitt est sa résolution à défendre le sérieux de la décision morale. Pour Schmitt, cette résolution est la conséquence et l’expression de sa théologie politique» (p24).). L’homme est sommé d’agir dans l’histoire en obéissant à la foi («la théologie politique place au centre cette vertu d’obéissance qui, selon le mot d’un de ses plus illustres représentants, «est dans la créature raisonnable la mère et la gardienne de toutes les vertus» (Augustin, Cité de Dieu XII, 14). Par leur ancrage dans l’obéissance absolue, les vertus morales reçoivent un caractère qui leur manquerait autrement.» (p31-32).), et il doit pour cela avant faire preuve de courage et d’humilité. L’auteur montre ainsi que loin de se réduire à la «politique pure», la pensée schmittienne investit la morale en en proposant un modèle aux contours relativement précis.

Chapitre 2: Réflexion sur la conception politique de Schmitt

Dans chapitre II, H. Meier montre que la conception politique de C. Schmitt ne peut être entièrement détachée d’une réflexion sur la vérité et la connaissance. En effet, Schmitt écrit, dans La notion de politique, que le politique «se trouve dans un comportement commandé par l’éventualité effective d’une guerre, dans le clair discernement de la situation propre qu’elle détermine et dans la tâche de distinguer correctement l’ami et l’ennemi». Cela implique que le politique désigne un comportement, une tâche et une connaissance, comme le met en évidence l’auteur. Pour mener à bien l’exigence d’obéissance mise au jour dans le chapitre précédent, il faut une certaine connaissance. Cela semble relativement clair, mais l’auteur va plus loin et défend la thèse selon laquelle non seulement le politique exige la connaissance, mais il veut montrer que l’appréhension du politique pour Schmitt est «essentiellement connaissance de soi» (p46).

La distinction entre l’ami et l’ennemi s’appuie sur une notion existentielle de l’ennemi. L’ennemi présupposé par le concept de politique est une réalité publique et collective, et non un individu sur lequel on s’acharnerait, mu par une haine personnelle. Comme le précise H. Meier, «il n’est déterminé par aucune «abstraction normative» mais renvoie à une donnée de la «réalité existentielle» (…). Il est l’ennemi qui «doit être repoussé» dans le combat existentiel.» (p49). La figure de l’ennemi sert le critère du politique, mais chez Schmitt, selon l’auteur, elle n’est pas le fruit d’une élaboration théorique, voire idéologique, mais elle est ce en face de quoi je suis toujours amené existentiellement à prendre position et elle sert aussi à me déterminer et à me connaître moi-même, sur la base du postulat que c’est en connaissant son ennemi qu’on se connaît soi-même. Grâce à la distinction entre l’agonal et le politique, qui tous deux mettent en jeu la possibilité de ma mort et celle de l’adversaire ou de l’ennemi, mais qui s’opposent sur le sens de la guerre et la destination de l’homme ( Dans une compréhension politique du monde, l’homme ne peut réaliser pleinement sa destinée et sa vocation qu’en s’engageant entièrement et existentiellement pour l’avènement de la domination, de l’ordre et de la paix, tandis que dans la pensée agonale, ce qui compte, c’est moins le but pour lequel on combat que la façon de combattre et d’inscrire ainsi son existence dans le monde. E. Jünger, qui défend une pensée agonale écrit ainsi: «l’essentiel n’est pas ce pour quoi nous nous battons, c’est notre façon de nous battre. (…) L’esprit combattif, l’engagement de la personne, et quand ce serait pour l’idée la plus infime, pèse plus lourd que toute ratiocination sur le bien et le mal» (La guerre comme expérience intérieure).), Schmitt montre qu’il ne s’agit pas de se battre par principe et pour trouver un sens à vie, mais de lutter pour défendre une cause juste, ou mieux la Justice. Et c’est à ce titre que le politique est ce par quoi l’homme apprend à se connaître, à savoir ce qu’il veut être, ce qu’il est et ce qu’il doit être ( H. Meier développe ainsi un commentaire long et précis sur le sens d’une phrase de Theodor Däubler qui revient souvent chez Schmitt: «l’ennemi est la figure de notre propre question». Nous nous connaissons en connaissant notre ennemi et en même temps nous reconnaissons notre ennemi en celui qui nous met en question. L’ennemi, en quelque sorte, est aussi le garant de notre identité. Notre réponse à la question que l’ennemi nous pose est notre engagement existentiel-par un acte de décision – concret dans l’histoire.).

cs-pol.pngLa confrontation politique apparaît comme constitutive de notre identité. A ce titre, elle ne peut pas être seulement spirituelle ou symbolique. Cette confrontation politique trouve son origine dans la foi, qui nous appelle à la décision («La foi selon laquelle le maître de l’histoire nous a assigné notre place historique et notre tâche historique, et selon laquelle nous participons à une histoire providentielle que nos seules forces humaines ne peuvent pas sonder, une telle foi confère à chacun en particulier un poids qui ne lui est accordé dans aucun autre système: l’affirmation ou la réalisation du «propre» est en elle-même élevée au rang d’une mission métaphysique. Etant donné que le plus important est «toujours déjà accompli» et ancré dans le «propre», nous nous insérons dans la totalité compréhensive qui transcende le Je précisément dans la mesure où nous retournons au «propre» et y persévérons. Nous nous souvenons de l’appel qui nous est lancé lorsque nous nous souvenons de «notre propre question»; nous nous montrons prêts à faire notre part lorsque nous engageons ma confrontation avec «l’autre, l’étranger» sur «le même plan que nous» et ce «pour conquérir notre propre mesure, notre propre limite, notre propre forme.»« (p77-78).).

Aussi les «grands sommets» de la politique sont atteints quand l’ennemi providentiel est reconnu. La politique n’atteint son intensité absolue que lorsqu’elle est combat pour la foi, et pas simple combat, guerre limitée et encadrée par le droit des gens moderne (Les croisades sont ainsi l’exemple pour C. Schmitt d’une hostilité particulièrement profonde, c’est-à-dire pour lui authentiquement politique.). C’est pour une communauté de foi, et plus particulièrement pour une communauté de croyants qui se réclame d’une vérité absolue et dernière, au-delà de la raison, que la politique peut être authentique. C’est d’abord pour défendre la foi qu’on tient pour vraie, une foi existentiellement partagée – et qui éventuellement pourrait être une foi non religieuse – que la politique authentique peut exister. C’est ainsi que Schmitt pense défendre la vraie foi catholique contre ces fausses fois qui la mettent en danger et qui sont le libéralisme et le marxisme. Ce qu’on appelle ordinairement ou quotidiennement la politique n’atteint pas l’intensité décisive des «grands sommets», mais n’en est que le reflet.

Chapitre 3: théologie politique, foi et révélation

Dans le troisième chapitre, H. Meier établit l’inextricable connexion entre théologie politique, foi et révélation. Aussi la théologie politique combat-elle l’incroyance comme son ennemi existentiel. Comme le résume l’auteur: «l’hostilité est posée avec la foi en la révélation. (…) la discrimination entre l’ami et l’ennemi trouverait dans la foi en la révélation non seulement sa justification théorique, mais encore son inévitabilité pratique» (p102). Obéir sérieusement à la foi exige, pour Schmitt, d’agir dans l’histoire, ce qui suppose de choisir son camp, c’est-à-dire de distinguer l’ami de l’ennemi. Politique et théologique ont en commun la distinction entre l’ami et l’ennemi; aussi, note l’auteur, «quand le politique est caractérisé grâce à la distinction ami-ennemi comme étant «le degré extrême d’union ou de désunion» (…), alors il n’y a plus d’obstacle au passage sans heurt du politique à la théologie de la révélation. La nécessité politique de distinguer entre l’ami et l’ennemi permet désormais de remonter jusqu’à la constellation ami-ennemi de la Chute, tandis que se révèle le caractère politique de la décision théologique essentielle entre l’obéissance et la désobéissance, entre l’attachement à Dieu et la perte de la foi.» (p104). L’histoire a à voir avec l’avènement du Salut, les fins politiques et théologiques sont indissociables pour Schmitt. La décision entre Dieu et Satan est aussi bien théologique que politique, et lorsque l’ennemi providentiel est identifié comme tel, le théologique et le politique coïncident dans leur définition de l’unique ennemi. Le reste du temps, politique et théologique peuvent ne pas coïncider, dans la mesure où toute confrontation politique ne met pas en jeu la foi en la révélation et où toute décision théologique ne débouche pas nécessairement sur un conflit politique. Et si Schmitt développe une théologie politique, c’est parce que ce qui est fondamental est le théologique (qui toujours requiert la décision et l’engagement de l’homme («la foi met fin à l’incertitude. Pour la foi, seule la source de la certitude, l’origine de la vérité est décisive. La révélation promet une protection si inébranlable contre l’arbitraire humain que, face à elle, l’ignorance semble être d’une importance secondaire.» (p138).)) qui prend parfois, mais pas toujours nécessairement, la forme du politique pour sommer l’homme de se décider.

Puis l’auteur examine la critique de la conception de l’Etat dans la doctrine de Hobbes (dans Le Léviathan dans la doctrine de l’Etat de Thomas Hobbes. Sens et échec d’un symbolisme politique) qu’il étudie en trois points.

Thomas_Hobbes_(portrait).jpgD’une part, Schmitt reproche à Hobbes d’artificialiser l’Etat, d’en faire un Léviathan, un dieu mortel à partir de postulats individualistes. En effet, ce qui donne la force au Léviathan de Hobbes, c’est une somme d’individualités, ce n’est pas quelque chose de transcendant, ou plus précisément, transcendant d’un point de vue juridique, mais pas métaphysique. A cette critique, il faut ajouter que, créé par l’homme, l’Etat n’a aucune caution divine: créateur et créature sont de même nature, ce sont des hommes. Or ces hommes, véritables individus prométhéens, font croire à l’illusion d’un nouveau dieu, né des hommes, et mortels, dont l’engendrement provient du contrat social. Et cette création à partir d’individus et non d’une communauté au sein d’un ordre voulu par Dieu, comme c’était, selon Hobbes, le cas au moyen-âge, perd par là-même sa légitimité aux yeux d’une théologie politique ( C. Schmitt écrit ainsi que: «ce contrat ne s’applique pas à une communauté déjà existante, créée par Dieu, à un ordre préexistant et naturel, comme le veut la conception médiévale, mais que l’Etat, comme ordre et communauté, est le résultat de l’intelligence humaine et de son pouvoir créateur, et qu’il ne peut naître que par le contrat en général.»).

D’autre part, Schmitt critique le geste par lequel l’Etat hobbesien est à lui-même sa propre fin. Autrement dit, cette œuvre que produisent les hommes par le contrat n’est plus au service d’une fin religieuse, d’une vérité révélée, mais, au contraire, est rendu habilité à définir quelles sont les croyances religieuses que doivent avoir les citoyens, qu’est-ce qui doit être considéré comme vrai. Enfin, Schmitt désapprouve le symbole choisi par Hobbes pour figurer l’Etat, le Léviathan.

Comme le note l’auteur, Schmitt pointe la faiblesse et la fragilité de la construction de Hobbes: «C’est un dieu qui promet aux hommes tranquillité, sécurité et ordre pour leur «existence physique ici-bas», mais qui ne sait pas atteindre leurs âmes et qui laisse insatisfaite leur aspiration la plus profonde; un homme dont l’âme artificielle repose sur une transcendance juridique et non métaphysique; un animal dont le pouvoir terrestre incomparable serait en mesure de tenir en lisière «les enfants de l’orgueil» par la peur, mais qui ne pourrait rien contre cette peur qui vient de l’au-delà et qui est inhérente à l’invisible.» (p167). Autrement dit, chez Hobbes, l’Etat peut se faire obéir par la peur de la mort, ce qui rend l’obéissance des hommes relatives à cette vie terrestre, alors que pour Schmitt, ce qui rend décisif et définitif l’engagement politique, c’est qu’il a à voir avec la fin dernière, le salut. Aussi peut-on être prêt ou décidé à mourir pour lutter contre l’ennemi, ce que nous craignons alors le plus est moins la mort violente que l’enfer post mortem. Et on comprend ainsi bien comment le libéralisme est ce qui veut éviter cet engagement, en niant la dimension proprement politique de l’existence humaine.

Chapitre 4: l'histoire comme lieu de discernement

Dans le dernier chapitre, centré sur l’histoire comme lieu de discernement dans lequel doit toujours se décider l’homme, l’auteur montre comment morale, politique et révélation sont liées à l’histoire pour permettre une orientation concrète («Pour la théologie politique, l’histoire est le lieu de la mise à l’épreuve du jugement. C’est dans l’histoire qu’il faut distinguer entre Dieu et Satan, l’ami et l’ennemi, le Christ et l’Antéchrist. C’est en elle que l’obéissance, le courage et l’espérance doivent faire leurs preuves. Mais c’est en elle aussi qu’est porté le jugement sur la théologie politique qui se conçoit elle-même à partir de l’obéissance comme action dans l’histoire.» (p177).). L’exemple privilégié par Schmitt pour mesurer un penseur qui se décide à l’histoire dans laquelle il se fait condamné à naviguer est celui de Hobbes. En effet, pour Schmitt, Hobbes prend position, avec piété pour l’Etat moderne, dans un cadre historique précis, celui des luttes confessionnelles, et sa décision en faveur de l’Etat qui neutralise les oppositions religieuses et sécularise la vie est liée à ce contexte historique. Si pour Schmitt, l’Etat n’est plus au XXème siècle une bonne réponse politique à la situation historique, au temps de Hobbes, se déterminer en faveur de cet Etat était la bonne réponse, puisque l’Etat «trancha effectivement à un moment historique donné la querelle au sujet du droit, de la vérité et de la finalité en établissant le «calme, la sécurité et l’ordre» quand rien ne semblait plus urgent que l’établissement du «calme, de la sécurité et de l’ordre»« (p183). En revanche, une fois conçu, l’Etat comme machine ou comme appareil à garantir la sécurité, il peut tomber entre les mains du libéralisme, du bolchévisme ou du nazisme qui peuvent s’en servir pour parvenir à leur fin, d’où sa critique de l’Etat au XXème siècle.

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La question que pose alors l’auteur est celle de l’engagement de Schmitt. Il montre que Schmitt dans les années 1920 et au début des années 1930 commence par soutenir le fascisme mussolinien dans lequel il voit le modèle d’un Etat qui s’efforce de maintenir l’unité nationale et la dignité de l’Etat contre le pluralisme des intérêts économiques. Il oppose ce type d’Etat au libéralisme qu’il considère comme un «système ingénieux de méthodes visant à affaiblir l’Etat» et qui tend à dissoudre en son sein le proprement politique. Il critique l’Etat de droit bourgeois et en particulier le parlementarisme ( Il écrit ainsi dans l’article «l’Etat de droit bourgeois»: «les deux principes de l’Etat de droit bourgeois que sont la liberté de l’individu et la séparation des pouvoirs, sont l’un et l’autre apolitiques. Ils ne contiennent aucune forme d’Etat, mais des méthodes pour mettre en place des entraves à l’Etat.»). Il démasque l’imposture des prétendues démocraties qui n’intègrent pas le peuple, qui ne lui permettent pas d’agir en tant que peuple ( Pour Schmitt, le peuple ne peut être que réuni et homogène (c’est-à-dire non scindé en classes distinctes ou divisé culturellement, religieusement, socialement ou «racialement»). Il estime également que seule l’acclamation permet d’exprimer la volonté du peuple, à l’opposé des méthodes libérales qu’il accuse de falsifier la volonté du peuple.) mais l’atomisent, ne serait-ce que parce qu’au moment de la décision politique, les hommes sont isolés pour voter, alors qu’ils devraient être unis: «ils décident en tant qu’individus et en secret, ils ne décident pas en tant que peuple et publiquement.» (p204). Ce qui fait que les démocraties libérales sont pour lui des démocraties sans démos, sans peuple. Schmitt veut fonder la politique sur un mythe puissant et efficace, et dans cette optique, il estime que le mythe national sur lequel se fonde le fascisme est celui qui donne le plus d’intensité à la foi et au courage (plus, par exemple, que le mythe de la lutte des classes). Ce que souligne l’auteur cependant, c’est que pour Schmitt, tout mythe est à placer sur un plan inférieur à la vérité révélée. Il s’agit donc pour le théologien politique de ne pas croire ce mythe, national ou autre, parce qu’il est éloigné de la vraie foi, mais de l’utiliser pour intensifier la dimension politique de l’existence que tend à effacer le libéralisme européen de son époque.

Comment concilier la décision de Schmitt en faveur du nazisme au printemps 1933? Pour Heinrich Meier, il faut considérer avant tout que cet engagement est fait en tant que théologien politique et non en tant que nationaliste. Il faudrait la lire comme l’essai pour sortir de deux positions antagonistes et qu’il rejette toutes les deux: le libéralisme et le communisme, tous deux adversaires du catholicisme et animés par une commune tradition visant un objectif antipolitique (L’auteur écrit ainsi: «Pendant les dix années, de 1923 à 1933, durant lesquelles Schmitt, empli d’admiration, suivit le parcours de Mussolini, sa conviction que le libéralisme et le marxisme s’accordaient sur l’essentiel ou en ce qui concerne leur «métaphysique» ne fit que se renforcer: l’héritage libéral était toujours déterminant pour le marxisme, qui «n’était qu’une mise en pratique de la pensée libérale du XIXème siècle». La réunion du libéralisme et du marxisme dans la «nouvelle croyance» du temps présent (…) disposant d’un fonds de dogmes communs et poursuivant le même objectif final antipolitique, devait faire apparaître le fascisme et le national socialisme comme les antagonismes les plus résolus.» (p212-213).). A cela s’ajoute, selon l’auteur, l’idée que le nazisme s’appuie sur la croyance au destin et à l’importance d’agir dans l’histoire. Mais peu après cette explication des raisons de l’adhésion de Schmitt au national-socialisme, l’auteur s’attache à montrer que des critiques du régime apparaissent dans ses écrits. On peut ainsi selon l’auteur lire de nombreux passages du livre sur Hobbes comme des critiques indirectes du régime nazi qui ne pouvaient pas ne pas être prises comme telles à l’époque (par exemple, des passages dans lesquels il explique que si l’Etat ne protège pas efficacement les citoyens, le devoir d’obéissance disparaît, ou des passages exposant que si un régime relègue la foi à l’intériorité, le «contre-pouvoir du mutisme et du silence croît».) Cependant, l’auteur prend également soin de distinguer d’un côté l’éloignement de Schmitt du pouvoir nazi en place et de l’autre la persistance de son antisémitisme. Ainsi le livre sur Hobbes est foncièrement antisémite – l’antisémitisme de ce livre ne serait pas qu’un fond, un langage destiné à répondre aux critères de l’époque – comme, du reste, dans de nombreux ouvrages. Et pour l’auteur cet antisémitisme a son origine dans la tradition de l’antijudaïsme chrétien, ce qui n’a pas détaché Schmitt de l’antisémitisme nazi. Au contraire, comme le souligne H. Meier, «on est bien obligé de dire que c’est l’hostilité aux «juifs» qui lie le plus durablement Schmitt au national-socialisme (…) Et il restera fidèle, même après l’effondrement du Troisième Reich, à l’antisémitisme» (p220).

Puis l’auteur s’intéresse à l’interprétation que Schmitt fait de l’histoire en mettant au cœur de cette interprétation le katechon, qu’on trouve dans la seconde lettre de Paul aux Thessaloniciens, et qu’il définit comme «la représentation d’une force qui retarde la fin et qui réprime le mal» ( Schmitt écrit ainsi dans Terre et Mer: «Je crois au katéchon; il représente pour moi la seule possibilité, en tant que chrétien, de comprendre l’histoire et de lui trouver un sens.»). Schmitt expose une vision chrétienne de l’histoire (notamment exposée dans une critique de Meaning in History de Karl Löwith) qu’il entend opposer à celle du progrès défendue par les Lumières, le libéralisme et le marxisme. La Providence ne peut être assimilée aux planifications prométhéennes humaines. La notion de katechon permet d’une part de rendre compte du retard de la parousie – et donc de l’existence perse de l’histoire ( C’est d’ailleurs dans cette perspective que Paul en parle.); d’autre part, elle «protège l’action dans l’histoire contre le découragement et le désespoir face à un processus historique, en apparence tout-puissant, qui progresse vers la fin. Enfin, elle arme à l’inverse l’action dans l’histoire contre le mépris de la politique et de l’histoire en l’assurant de la victoire promise.» (p231-232). En effet, sans le katechon, on est conduit à penser que la fin de l’histoire est imminente et que l’histoire n’a qu’une valeur négligeable.

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Ainsi, l’auteur parvient à montrer efficacement comment morale, politique, vérité révélée et histoire sont liées dans la pensée schmittienne, pensée ayant son centre dans la foi catholique de Schmitt. On ne peut comprendre la genèse des concepts schmittiens et leur portée véritable qu’en ayant à l’esprit cette foi expliquant sa pensée est moins une philosophie politique – si la philosophie doit être pensée comme indépendante de la foi en la révélation – qu’une théologie politique, pour ainsi dire totale en ce qu’elle informe tous les aspects de l’existence. La tentative d’H. Meier d’expliquer et de rendre compte et de l’engagement de Schmitt dans le nazisme –sans évidemment l’excuser ou n’en faire qu’une erreur malencontreuse– par l’antagonisme que ce régime pouvait manifester à l’encontre des autres régimes (libéralisme, marxisme) qui luttaient contre le catholicisme est pertinente, d’autant qu’elle ne le disculpe pas et qu’elle prend soin de souligner son indéfendable antisémitisme. Il faut aussi reconnaître à l’auteur une connaissance extrêmement précise des textes de Schmitt, de leur contexte et des adversaires que vise ce dernier même lorsqu’ils ne sont pas nommés, ce qui contribue à la clarification de maintes argumentations de Schmitt parfois équivoques ou elliptiques.

mardi, 13 mars 2018

Zum 20. Todestag Ernst Jüngers: aus dem Archiv von literaturkritik.de

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Zum 20. Todestag Ernst Jüngers: aus dem Archiv von literaturkritik.de

Ex: http://literaturkritik.de

Vor den Beiträgen in der Februar-Ausgabe 2018 zum 20. Todestag Ernst Jüngers (geb. am 29.3.1895, gest. 17.2.1998) sind in literaturkritik.de zahlreiche Rezensionen und Essays erschienen, die sich mit dem umstrittenen Autor, seinem Werk und seiner Rezeption auseinandergesetzt haben. Hier eine Zusammenstellung aus unserem Archiv in chronologischer Anordnung:

Ernst Jüngers Gestaltdenken aus narratologischer Sicht.
Eine neue Studie untersucht „Heliopolis“ und „Eumeswil“
Von Christophe Fricker
Ausgabe 08-2017

Der Chronist des Getöses.
Zur kritischen Edition von Ernst Jüngers „Krieg als inneres Erlebnis. Schriften zum Ersten Weltkrieg“
Von Walter Delabar
Ausgabe 09-2016

Im Gespräch mit einem Titanen.
Christophe Fricker gibt die Gespräche zwischen Ernst Jünger und André Müller heraus
Von Stefan Tuczek
Ausgabe 08-2015

Aporien des Krieges, des Erzählens und der Theorie.
Die lesenswerte Studie „Writing War“ von Daniela Kirschstein widmet sich der Kriegsliteratur von Ernst Jünger, Louis-Ferdinand Céline und Curzio Malaparte
Von Wolfgang M. Schmitt
Ausgabe 07-2015

Günter Grass und Ernst Jünger.
Trotz aller Unterscheide zeigen sich erstaunliche Parallelen im Werk der beiden Schriftsteller
Von Gabriela Ociepa
Ausgabe 05-2015

EJliv1.jpgBiographisches Rohmaterial.
Über Ernst Jüngers „Feldpostbriefe an die Familie 1915–1918“
Von Niels Penke
Ausgabe 12-2014

Die Hoffnung führt weiter als die Furcht.
Tom Schilling liest Ernst Jüngers „In Stahlgewittern“
Von Martin Ingenfeld
Ausgabe 07-2014

Warum eigentlich Ernst Jünger?.
Ein neues Handbuch bereichert die Forschung zu einem umstrittenen Autor
Von Daniel Borgeldt
Ausgabe 07-2014

In allen Lagern Gegner.
Tonaufnahmen von Lesungen und Vorträgen Ernst Jüngers
Von Andreas R. Klose
Ausgabe 03-2014

Stahlgewitter.
Ernst Jünger und der Erste Weltkrieg
Von Helmuth Kiesel
Ausgabe 02-2014

Werkpolitik im Spiegel nordischer Motive.
Niels Penke stellt Ernst Jüngers Schriften in den Kontext der skandinavischen Literatur
Von Maik M. Müller
Ausgabe 01-2014

Tore der Wahrnehmung.
Über eine erstmals veröffentlichte Auswahl des Briefwechsels zwischen Albert Hofmann und Ernst Jünger
Von Volker Strebel
Ausgabe 11-2013

Noch einmal: Der neue revolutionäre Mensch.
Mario Bosincu über „Die Wende Ernst Jüngers“
Von Jerker Spits
Ausgabe 08-2013

Planetarisches aus der Provinz.
Ein Konstanzer Tagungsband nimmt den mittleren und späten Ernst Jünger in den Blick
Von Niels Penke
Ausgabe 04-2013

En vogue in einem kleinen Kreis.
Ernst Jünger aus der Sicht seines französischen Übersetzers Julien Hervier
Von Jerker Spits
Ausgabe 10-2012

Ein zuweilen starrsinniges Beharren auf Unabhängigkeit.
In bislang ausführlichster Weise berichtet der 2011 verstorbene Literaturwissenschaftler Heinz Ludwig Arnold über seine Zeit mit Ernst Jünger
Von Volker Strebel
Ausgabe 06-2012

Zwischen Bewegung und Verharren.
Jan Robert Weber untersucht den ästhetischen Wert von Ernst Jüngers Reisetagebüchern
Von Heide Kunzelmann
Ausgabe 01-2012

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Zum Oberlehrer ungeeignet.
Thomas Amos legt in der bewährten Reihe der Rowohlt-Monografien eine Biografie Ernst Jüngers mit Ecken und Kanten vor
Von Volker Strebel
Ausgabe 01-2012

Instrumentalisierter Tötungstrieb.
Michael Gratzke untersucht die Grundfiguren des Heldentums bei Gotthold Ephraim Lessing, Heinrich von Kleist, Theodor Fontane, Ernst Jünger und Heiner Müller
Von Erhard Jöst
Ausgabe 06-2011

Der kanonische Rang eines Klassikers.
Ernst Jünger – mehr als eine Bilanz in einem neuen Sammelband
Von Gabriele Guerra
Ausgabe 05-2011

EJb2.jpgErnst Jüngers Rhodos-Reisen von 1938, 1964 und 1981
Ausgabe 01-2011

Totale Tinte.
Ohne Anlass wird Ernst Jünger vom Deutschen Literaturarchiv Marbach als einer der „wichtigsten Schriftsteller der Moderne“ vorgestellt – und Helmuth Kiesel beglückt uns mit seiner Erst-Edition der „Tagebücher 1914-1918“
Von Jan Süselbeck
Ausgabe 01-2011

Der verborgene Prophet.
Ernst Jüngers politische Theologie zwischen Autorität und Repräsentation
Von Gabriele Guerra
Ausgabe 01-2010

Eine gute Zeit für Drogen.
Wiederbegegnung mit Ernst Jüngers „Annäherungen“
Von Christophe Fricker
Ausgabe 01-2009

Kriegsträumer.
Lars Koch zu Walter Flex und Ernst Jünger als Repräsentanten der Gegenmoderne
Von Walter Delabar
Ausgabe 12-2008

Fotoalbum für Wehrsport-Fans.
Nils Fabiansson hat Schauplätze von Ernst Jüngers Kriegstagebuch „In Stahlgewittern“ aufgesucht
Von Jan Süselbeck
Ausgabe 03-2008

Nach dem Fazit.
Hans Blumenberg über Ernst Jünger
Von Kai Köhler
Ausgabe 03-2008

Hochmut und Leutseligkeit auf dem Dorf.
Ernst Jünger in neueren Biografien und Monografien
Von Lutz Hagestedt
Ausgabe 03-2008

EJB3.jpgSpringtime for Ernst Jünger.
Über Heimo Schwilks Jünger-Biografie
Von Philipp Steglich
Ausgabe 03-2008

Freunde unter sich.
Günther Nicolin editiert den Briefwechsel von Ernst Jünger und Stefan Andres
Von Torsten Mergen
Ausgabe 06-2007

Unterhaltung über Mescalin.
Die späte Begegnung der beiden Einzelgänger Gottfried Benn und Ernst Jünger: Jetzt wurde der schmale Briefwechsel vorgelegt
Von Volker Strebel
Ausgabe 07-2006

Deutschsein als Amt.
Zum Briefwechsel Ernst Jüngers und Friedrich Hielschers
Von Volker Strebel
Ausgabe 12-2005

Ernst Jünger: Politik – Mythos – Kunst
Ausgabe 12-2004

„Wie kein anderer erfährt er den Weltkrieg sogleich metaphysisch.“.
Martin Heideggers Bemerkungen zu Ernst Jünger
Von Stephan Günzel
Ausgabe 08-2004

Teilnehmen, Anteil nehmen.
Michael E. Sallinger begeistert sich für Ernst Jünger und seinesgleichen
Von Viktor Schlawenz
Ausgabe 08-2004

Zwischen Traum und Trauma.
Michael Gnädingers Studie zum Frühwerk Ernst Jüngers
Von Helmut Kaffenberger
Ausgabe 04-2004

„Wann hat dieser Scheißkrieg ein Ende“?.
Der britische Germanist John King gewährt Einblicke in die originalen Kriegstagebücher Ernst Jüngers
Von Jerker Spits
Ausgabe 12-2003

Vor und nach dem Rochenstich.
Mit Band 22 ist die Ausgabe der „Gesammelten Werke“ Ernst Jüngers abgeschlossen
Von Lutz Hagestedt
Ausgabe 12-2003

EJB4.jpgStratege im Hintergrund.
Ernst Jüngers Briefwechsel mit Gerhard Nebel
Von Gunther Nickel
Ausgabe 11-2003

Ernst Jünger – verzettelt und verzeichnet.
Nicolai Riedels Ernst Jünger-Bibliographie und Tobias Wimbauers „Personenregister“
Von Gunther Nickel
Ausgabe 07-2003

Die Psychoanalyse des körperlichen und gestischen Agierens.
Über ein neues Paradigma für Psychotherapie und Kulturwissenschaften mit einem Ausblick auf Ernst Jüngers „In Stahlgewittern“
Von Harald Weilnböck
Ausgabe 03-2003

Literarische Adaption des Griechentums.
Annette Rinks Studie über Ernst Jüngers Antike-Rezeption
Von Reinhard Wilczek
Ausgabe 11-2002

Schönheit des Untergangs.
Roswitha Schieb untersucht Körper- und Kollektivbilder bei Ernst Jünger, Hans Henny Jahnn und Peter Weiss
Von Lutz Hagestedt
Ausgabe 11-2002

Eine Welt sinnloser Bezüge.
Ulrich Prill entdeckt Ernst Jünger als homo ludens
Von Helge Schmid
Ausgabe 11-2002

Ich befand mich einfach in einer anderen Dimension.
Ernst Jünger im Gespräch mit Antonio Gnoli und Franco Volpi
Von Lutz Hagestedt
Ausgabe 11-2002

Ich fühle, dass meine Wurzeln hier sind.
Ein Bildband über Ernst Jünger in Oberschwaben
Von Helge Schmid
Ausgabe 11-2002

EJB5.jpgDer Einzelne nach der Kehre.
Jörg Sader untersucht Ernst Jüngers „Strahlungen“
Von Lutz Hagestedt
Ausgabe 11-2002

Starke Frauen, intrigante Männer.
Ernst Jüngers Dramenfragment „Prinzessin Tarakanowa“
Von Christina Ujma
Ausgabe 11-2002

Ernst Jünger in Berlin 1927-1933
Ausgabe 01-2002

Ernst Jünger in Wilflingen
Ausgabe 01-2002

Zwischen Subjektivität und Authentizität.
Volker Mergenthaler zum poetologischen Problem narrativer Kriegsbegegnung im Frühwerk Ernst Jüngers
Von Reinhard Wilczek
Ausgabe 01-2002

Ambiguität des Figürlichen.
Julia Draganovic untersucht das metaphysische Grundkonzept in Ernst Jüngers Prosa
Von Lutz Hagestedt
Ausgabe 01-2002

Exotische Lesefrüchte eines Jahrhundert-Autors.
Thomas Pekars Studie über Ernst Jüngers Orient-Rezeption
Von Reinhard Wilczek
Ausgabe 01-2002

Führung durch Stahlgewitter und Waldgänge.
Steffen Martus gibt einen exzellenten Überblick über das Werk Ernst Jüngers
Von Stephan Landshuter
Ausgabe 01-2002

Autor und Sekretär, Verehrer und Gegner.
Ernst Jünger in einer Festschrift und in einer Streitschrift
Von Lutz Hagestedt
Ausgabe 01-2002

Garantiert politisch unkorrekt.
Ernst Jüngers politische Publizistik aus den Jahren 1919 bis 1933
Von Gunther Nickel
Ausgabe 01-2002

Großer Übergang und päpstlicher Segen.
Ernst Jüngers Werkausgabe in den Supplementbänden 19 und 20
Von Lutz Hagestedt
Ausgabe 01-2002

Ernst Jünger als Nietzsche-Rezipient.
Die Nihilismusthese ist die Leitlinie seines Schaffens
Von Ursula Homann
Ausgabe 02-2001

Momente der Selbstbegegnung.
Ernst Jüngers Tagebuch und Briefwechsel
Von Lutz Hagestedt
Ausgabe 10-2000

EJB6.pngUnsere Total-Kalamität.
Ernst Jüngers Briefwechsel mit Carl Schmitt
Von Lutz Hagestedt
Ausgabe 10-2000

Saulus und Paulus.
Elliot Y. Neamans Studie über Ernst Jünger und die post-faschistische Literaturpolitik
Von Lutz Hagestedt
Ausgabe 10-2000

Elementar nützlich.
Tobias Wimbauers Personenregister der Tagebücher Ernst Jüngers
Von Helge Schmid
Ausgabe 10-2000

Trauma, Drogenrausch, Gewaltrausch.
Klaus Gauger über drei liminale Zustände in Ernst Jüngers Werk
Von Helge Schmid
Ausgabe 10-2000

Das Ende der Heldenzeit.
Dirk Blotzheim untersucht Ernst Jüngers Frühwerk
Von Lutz Hagestedt
Ausgabe 10-2000

Ich werde plötzlich dumpf, erbreche draußen.
Armin Mohler berichtet über seine Jahre mit Ernst Jünger
Von Kai Köhler
Ausgabe 10-2000

Die durchgedrückte Brust des Melancholikers.
Die Ernst Jünger-Biografie von Paul Noack
Von Oliver Jahn
Ausgabe 10-2000

Bildhauer, bleib bei deinen Skulpturen.
Serge D. Mangin und seine „Annäherungen an Ernst Jünger 1990 – 1998“
Von Oliver Jahn
Ausgabe 10-2000

Zum 20. Todestag von Ernst Jünger

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Zum 20. Todestag von Ernst Jünger

Ex: https://www.der-dritte-weg.info

Auch heute noch, zwanzig Jahre nach seinem Tod, ist es kein leichtes Unterfangen über Leben, Werk und Wirken des Jahrhundertschriftstellers zu schreiben. Zu widersprüchlich scheinen seine Worte und seine Taten zu sein, zu wechselhaft seine Gedanken und Sätze. Ernst Jünger, das ist der hochdekorierte Stoßtruppführer des ersten Weltkriegs, der radikale Nationalist der Zwischenkriegszeit, der innere Emigrant während des dritten Reiches und schließlich der kategoriensprengende Denker der zweiten Hälfte des letzten Jahrhunderts. Es kann bereits am Anfang dieses Artikels gesagt werden, dass man keinesfalls eine befriedigende oder abschließende Betrachtung Jüngers – auch aus nationalrevolutionärer Perspektive – in diesem begrenzten Platz liefern kann, sondern allenfalls eine Annäherung. Wie soll man auch einen Soldaten, Schriftsteller und Denker, dessen Leben 103 Jahre währte, dessen Gesamtausgabe (wo nicht einmal alle Werke und Aufsätze drin enthalten sind!) nicht weniger als 23 dicke Bände füllt und der nicht nur zwei Weltkriege, sondern, die BRÖ mit eingerechnet, sechs deutsche Staaten gesehen hat, in einem einzigen Artikel gerecht werden? Als ältestes von fünf Kindern 1895 geboren, erlebte Jünger noch die letzten Jahre des deutschen Kaiserreiches, welches ihn durchaus noch für den Rest seines Lebens prägen sollte. Der Weg des schlechten Schülers, aber begeisterten Lesers, sollte ihn zunächst in den Wandervogel und später durch die halbe Welt führen.

Dass Jünger vor allem ein „abenteuerliches Herz“, wie eines seiner Werke heißt, war, zeigte sich bereits 1913, als der grade 18 Jährige nach Frankreich entfloh und sich zur Fremdenlegion meldete. Einzig dem diplomatischen Geschick seines Vaters ist es geschuldet, dass sich Jünger als Kriegsfreiwilliger nach Ablegung seines Notabiturs 1914 in den ersten Weltkrieg auf deutscher Seite melden konnte und er nicht als Fremdenlegionär gegen das eigene Vaterland zu Felde ziehen musste. Mehr als 20 Jahre später beschrieb Jünger in seinen „Afrikanischen Spiele“ seine Zeit bei der Fremdenlegion. Bereits am ersten Kriegstag begann er mit dem Schreiben seines später weltberühmt werdenden Tagebuchs. Schonungslos und objektiv, und doch mit einer lebendigen Sprache und einer, wie er schrieb, „trunkenen Stimmung aus Rosen und Blut“ beschrieb er in seinem als „In Stahlgewittern“ veröffentlichtem Tagebuch seine Kriegserlebnisse. Der „ruhige Leutnant“ machte sich in vierjährigem Einsatz an der Westfront einen Namen, durchquerte alle bekannten westlichen Schlachtfelder des ersten Weltkriegs und ging mit fast stoischer Haltung durch „Feuer und Blut“, wie eines seiner weiteren Werke über den ersten Weltkrieg heißt.

Es entstand ein neuer Mensch, ein neuer Lebenswille. Ihn kennzeichnete die nervige Härte des Kämpfers, der Ausdruck der einsameren Verantwortung, der seelischen Verlassenheit. In diesem Ringen … bewährte sich sein Rang. Der Weg, den er ging, war schmal und gefährlich, aber es war ein Weg, der in die Zukunft führte … Der Anblick des Gegners bringt neben letztem Grauen auch Erlösung von schwerem, unerträglichem Druck. Das ist die Wollust des Blutes, die über dem Kriege hängt wie ein rotes Sturmsegel über schwarzer Galeere, an grenzenlosem Schwunge, nur dem Eros verwandt“, schrieb Jünger in seinem ersten literarischen Gehversuch. Den Krieg hatte, laut ihm, der deutsche Frontsoldat wie einen Wein genossen und war auch nach seinem Ende immer noch davon berauscht, ein Ausdruck, der sicherlich auf viele der entlassenen Soldaten und kommenden Freikorpskämpfer zutrifft. Für ihn gewann der Kampf neben der Zerstörung und des Todes auch eine metaphysische Bedeutung, wie er in „Der Kampf als inneres Erlebnis“ darzustellen versuchte. Für ihn war derjenige, der beim Krieg nur die Verneinung, nur das eigene Leiden und nicht die Bejahung empfunden habe, ein Sklave, der lediglich ein äußeres, aber kein inneres Erlebnis hatte.

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Doch in den Stahlgewittern der Materialschlachten gewann er nicht nur seine Ansichten über Krieg und Frieden, sondern auch den Beginn seiner technikkritischen Anschauungen, die ihn sein Leben lang als einer der wenigen Kontinuitäten begleiten sollte. Die Materialschlachten, Artilleriegeschosse und Panzer reduzierten den Krieg zum Handwerk und den Krieger zu einem namen- und gesichtslosen Objekt. Die Ansichten, ob der Soldat doch über die Materie siegen kann oder ob diese ihn dominiert, schwankt immer wieder in seinen Werken und in denen seiner Zeitgenossen. Die vier Hauptwerke Jüngers über sein „Bruderschaftstrinken mit dem Tod“, „In Stahlgewittern“, „Feuer und Blut“, „Der Kampf als inneres Erlebnis“ und „Wäldchen 125“ zeugen nicht nur von diesen Gedanken, sondern gehören wohl auch zu den literarisch besten Beschreibungen der Erlebnisse des feldgrauen Soldaten des ersten Weltkriegs. Es ist eine Mischung aus Heldenmut, Eros, Sprachkraft, Tod und Leben, die ihm bei vielen Pazifisten bis heute in den Ruf eines Kriegstreibers bringt.

Oft hielt ein Fähnlein eherner Gesellen sich endlose Tage im Gewölk der Schlacht, verbissen in ein unbekanntes Stückchen Graben oder eine Reihe von Trichtern, wie sich Schiffbrüchige im Orkan an zertrümmerte Masten klammern. In ihrer Mitte hatte der Tod seine Feldherrnstandarte in den Boden gestoßen. Leichenfelder vor ihnen, von ihren Geschossen gemäht, neben und zwischen ihnen die Leichen der Kameraden, Tod selbst in ihren Augen, die seltsam starr in eingefallenen Gesichtern lagen, diesen Gesichtern, die an die grausige Realistik alter Kreuzigungsbilder erinnerten. Fast verschmachtet hockten sie in der Verwesung, die unerträglich wurde, wenn wieder einer der Eisenstürme den erstarrten Totentanz aufrührte und die mürben Körper hoch in die Lüfte schleuderte … Man zog ja über das Grausige hinweg mit genagelten Stiefeln, ehern und blutgewohnt. Und doch fühlte man, wie etwas um die verwaisten Kamine strich und einem den Hals zuschnürte, so eisig, daß man schlucken mußte. Man war ja ein Träger des Krieges, rücksichtslos und verwegen, hatte manchen umgelegt, über den man weitergeschritten war mit starken Gefühlen in der Brust. Doch dies war wie ein Kinderwimmern aus wilden Mooren, eine gespenstische Klage wie das Glockengeläut des versunkenen Vineta über Meer und Mittag. Gleich dem Untergang jener übermütigen Stadt spürte man das hoffnungslose Versinken einer Kultur, erschauernd vor der Erkenntnis, im Strudel mit hinabgerissen zu werden“, heißt es etwa im „Kampf als inneres Erlebnis“.

Selbst am Ende seines Lebens sollte er sich nie von diesen Darstellungen distanzieren, noch als Greis antwortete er französischen Journalisten, dass sein schrecklichstes Erlebnis im ersten Weltkrieg gewesen sei, dass Deutschland ihn verloren habe. Eine Aussage, die umso höher zu bewerten ist, wenn man bedenkt, dass der junge Stoßtruppführer vierzehn Verwundungen erlitt. Mit Ende des Krieges begann auch der wohl bis heute umstrittenste Abschnitt seines Lebens. Während sich zahlreiche andere Soldaten zu den Freikorps meldete , diente der Kriegsheld zunächst in der Reichswehr. Zwar soll er, laut eigener Aussage, einmal eine kurze Zeit bei dem berühmten Freikorpsführer Roßbach gewesen sein, allerdings habe ihn die Landknechtartigkeit vieler Freikorpskämpfer abgeschreckt. In die folgenden Jahren folgen nicht nur seine zahlreichen Artikel in radikalnationalistischen Zeitschriften – zusammengefasst gibt es sie heutzutage als „Politische Publizistik“ zu erwerben – sondern auch seine Zeit als Bohemien. Neben literarische Studien, nationalistischen Büchern und Artikeln gab es auch Jüngers erste Drogenerfahrungen, die er in seiner Erzählung „Polnischer Karpfen“ behandelt. (Später sollten weitere Experimente, speziell zusammen mit dem Erfinder von LSD, folgen.) Jünger, so viel sei an dieser Stelle gesagt, ergab sich aber nicht dem in der Weimarer Schandrepublik propagierten Drogenkonsum zur Erhöhung der Lust und des Rausches wegen, sondern eher aus transzendenten Abenteuerlust.

Während der Kampfzeit der Nationalisten gegen die Novemberverbrecher wurde Jünger einer der Wortführer des „Neuen Nationalismus“. Sätze wie „Der Tag, an dem der parlamentarische Staat unter unserem Zugriff zusammenstürzt, und an dem wir die nationale Diktatur ausrufen, wird unser höchster Festtag sein.“ begeisterten zahllose nationale Aktivisten. Doch grade auch seine nationalistische Zeit wirft neue Fragen in Mysterium Jüngers auf. War er auf der einen Seite radikaler Nationalist – die NSDAP lehnte er später u. A. deswegen ab, weil diese einen legalen Weg beschritt, er wollte die bewaffnete Revolution – und erklärter Todfeind der bürgerlichen Gesellschaft, so führte er, während Hunderte Nationalisten im Straßenkampf ihr Leben ließen, selbst ein bürgerliches Leben. Noch 1926 sandte er Adolf Hitler sein Buch „Feuer und Blut“ mit der Widmung „Dem nationalen Führer Adolf Hitler“ und sprach sich in verschiedenen Beiträgen positiv über die NSDAP und den Nationalsozialismus aus. Erst die Entwicklung zur Massenpartei sowie eine wirtschaftspolitische Orientierung von Jünger an den Bolschewismus entfremdeten ihn der NSDAP, der er schließlich sogar vorwarf, verbürgerlicht zu sein.

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Als vermeintlich sein höchster Feiertag gekommen war und der parlamentarische Staat am 30. Januar 1933 zerbrach, stellte sich Jünger nicht der neuen nationalen Regierung zur Verfügung, sondern begab sich in die „innere Emigration“. Vom Nationalsozialismus trennte ihn zwar der Rassegedanke (den Jünger als materialistisch ablehnte) , auch war die NSDAP eine Massenpartei, während sich Jünger in einem, wie man es wohl heute aus unserer Sicht beurteilen kann, „Elitenwahn“ befand, dennoch waren die Übereinstimmungen zwischen dem dritten Reich und Jüngers nationaler Visionen weit größer als die Differenzen. Es wird wohl für immer ein Rätsel bleiben, wieso Jünger nicht wie andere seiner Zeit und einiger seiner engen Freunde – etwa Heidegger, Benn oder Schmitt – zumindest versuchte, die neue Zeit mitzugestalten, sondern sich von Beginn an abseits hielt. Unzweifelhaft war ihm der Totalitarismus des dritten Reiches nicht genehm, dennoch muss man wohl als Nationalist das Urteil ziehen, dass für Jünger mehr der Weg als das Erreichen des Ziels entscheidend gewesen war. Dazu kommt seine Ende der 20er-Jahre einsetzende Entwicklung weg von der politischen Publizistik hin zur reinen literarischen Betätigung. Allerdings sollte er eine gewisse nationale Einstellung sein Leben lang beibehalten, zwar nicht mehr in ihrer ursprünglichen Radikalität, aber dennoch vorhanden.

So wie es über seine Tätigkeiten in der Novemberrepublik zahlreiche Vorwürfe von den späteren Kriegssiegern und liberalen Nachkriegsgenerationen gab, so gibt es über seine Zeit im dritten Reich und insbesondere im zweiten Weltkrieg solche von nationalistischer Seite. Jünger hielt auch während der Zeit der nationalsozialistischen Regierung Kontakt zu Staatsfeinden wie Ernst Niekisch, was ihn ins Visier der Polizei geraten ließ. Doch handelt es sich dabei nicht um einen im eigentlichen Sinne widerständigen Kontakt, Jünger hielt vielmehr den intellektuellen Austausch mit dem ihm befreundeten Niekisch. Später sollte er einen solchen auch mit dem französischen Faschisten und Kollaborateur Pierre Drieu la Rochelle, zu dem ihm ebenfalls eine Freundschaft verband, pflegen. Überhaupt muss Jünger mehr als Denker und Schriftsteller und weniger als politischer Mensch angesehen werden. Als solcher hatte er auch Kontakt zu dem Widerstandskreis des 20. Juli 1944, allerdings ohne sich an den Planungen zum Attentat auf Adolf Hitler zu beteiligen oder genaueres zu wissen. Zwar war Jünger ohne Zweifel ein Gegner des Krieges, in dem sein einziger Sohn fiel, politische Attentate lehnte er allerdings schon aus Prinzip ab.

Er hatte sich in den Jahren seiner „inneren Emigration“ zunehmend zum Selbstbildnis seiner literarischen Gestalt des Anarchen bzw. des Waldgängers entwickelt, einer Person, die sich aus dem Laufe der Geschichte heraushält und versucht, seinen eigenen Weg abseits der großen Ereignisse zu gehen. Seine oft als Anti-NS Schrift beschriebenen Marmorklippen sind ebenfalls Teil dieser Entwicklung, die Marmorklippen sind aber eher als generell antitotalitäres Buch zu verstehen, als explizit gegen das dritte Reich gerichtet. Adolf Hitler selbst hielt die zwölf Jahre durchgehend persönlich seine schützende Hand über Jünger, mit dem er in der Kampfzeit noch signierte Bücher austauschte. Nach dem 8. Mai 1945 erhielt Jünger über einige Jahre ein Publikationsverbot, bevor er sein literarisches Schaffen weiterführen konnte. Damit gelangen ihm nicht nur Bestseller, sondern sogar die Verleihung des Goethe-Preises, wobei zahlreiche linke und linksradikale Akteure der bundesrepublikanischen Kulturlandschaft gegen Jünger zu Felde zogen.

Über Jahrzehnte zog sich die Diskussion um ihn und seine Werke, auch heute noch ist sie nicht abgeschlossen. Unabhängig von den Inhalten seiner Werke mussten aber die meisten Kulturkritiker die hohe literarische Qualität des wohl umstrittensten deutschen Autoren überhaupt würdigen. Ein abschließendes Fazit zu Jünger wird sich wohl nie finden lassen: Abenteurer und doch verharrend in einem bürgerlichen Leben, radikaler Nationalist und doch Gegner des dritten Reiches, Kriegsheld und Denker, Schriftsteller und Philosoph, zu groß sind die Widersprüche und die Richtungswechsel, die Jünger eingeschlagen hat. Am ehesten lässt er sich wohl noch als romantischer Abenteurer beurteilen, er selbst gefiel sich in der Rolle des Seismografen, der die Ereignisse seiner Zeit beobachtet und schilderte, statt sie zu gestalten. Ob man ihn ablehnt – und wenn ja aus welchen Gründen – oder ob man sich von seinen Werken begeistern lässt, vor 20 Jahren starb unzweifelhaft einer der Großen der deutschen Kulturlandschaft.

 

samedi, 24 février 2018

La libertad en el Estado Mundial

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La libertad en el Estado Mundial

José Javier Esparza

Ex: http://www.posmodernia.com

Jünger relexionó incesantemente sobre la libertad, en particular sobre la libertad personal. Lo hizo al mismo tiempo que expresaba su convicción de que la humanidad caminaba hacia formas de organización colectiva cada vez más férreas y hasta asfixiantes. Esas formas de organización, vistas desde la perspectiva jüngeriana, revestían en los años 30 los colores del mundo del Trabajador y en los años 50 se manifestaron cada vez más como Estado Mundial, que en realidad son dos fases distintas del mismo proceso. La pregunta es cómo concebir la libertad personal en semejante contexto. Y a modo de guía en el camino, Jünger aporta una interpretación que descansa en dos conceptos clave: organismo y organización.

El Estado Mundial de Jünger es, ante todo, la constatación y la explicación de una tendencia que se está acelerando a medida que el poder técnico se desarrolla; en cierto modo, podemos decir que es una pionera exploración metafísica de lo que hoy se ha llamado “globalización”. El Estado Mundial es la forma de organización del estado en la era de la técnica. Pero frente a esa organización, surgen las correspondientes resistencias. Y aquí se basa la perspectiva jüngeriana del eterno conflicto entre organismo y organización:

“Desde siempre ha sido dominante la desconfianza frente al Estado. Los esfuerzos hechos por él, sus intervenciones, despertaron desde el primer momento unos temores en los que se expresa algo más que la simple prudencia política y que la reivindicación de un modo propio de ser. Aquí no son sólo la persona singular y sus comunidades naturales, como la familia, la parentela, la tribu, el pueblo, las que se ven expuestas a una exigencia que penetra hondamente en la substancia y cuyas ventajas y desventajas es difícil ponderar. Aquí es la vida misma la que está en una de sus grandes encrucijadas. En ella el organismo y la organización se encuentran” (pp. 193-194).

Lobos y abejas

Jünger obtiene estos términos, “organismo y organización”, de una máxima del escritor francés Rivarol: “El poder es la fuerza organizada” (La puissance est la force organisée), síntesis de sus aforismos políticos . Pero Jünger intenta ir más allá de la perspectiva de este autor y se sitúa en una posición en la que la organización es aprehendida al mismo tiempo que su contrario, el organismo . Tampoco es difícil hallar aquí ecos de la tradición organicista alemana, en la que la materia y el organismo se contraponen como, en Tönnies, se contraponen sociedad (mecánica) y comunidad (orgánica).

El organismo es la forma de ser de las realidades vivas, naturales; la organización es la “plantilla”, el “molde” que se impone sobre el organismo ya para facilitar su supervivencia, ya para incrementar su poder. Al orden del organismo pertenecen la familia, el clan, la comunidad; al orden de la organización pertenecen el Estado y la división del trabajo. En el orden del organismo, la libertad es muy amplia, pero también el riesgo, pues la capacidad de supervivencia disminuye; en el orden de la organización, la seguridad es intensa, así como la riqueza, pero a costa de enormes sacrificios de la libertad. Esta díada de potencias no es exclusiva del orden humano, sino que echa sus raíces en la propia estructura del mundo natural:
“La elección es honda y penetra profundamente, llega hasta la célula. Tiene su balance de pérdidas y ganancias. Un ejemplo: cuando las células de la visión se diferencian, la ganancia de fuerza perceptiva tiene como contrapartida una pérdida de fuerza sensorial, erótica. Cuando se forman colonias, como ocurre en el caso de las esponjas, la seguridad de los individuos afectados aumenta, pero su libertad disminuye. Cuando, como ocurre en el caso de los insectos estatizadores, la ordenación del trabajo y su división han hecho progresar la economía hasta un grado tal que posibilita el acumular reservas, esa riqueza es comprada con sacrificios asombrosos. La abeja obrera es una hembra mutilada, producto de una reducción; el asesinato de los zánganos es un modelo de implacable razón de Estado. En las termitas y en las hormigas encontramos formas que anticipan idealmente no sólo la agricultura, sino también la esclavitud” (p. 194).

jungerPAZ.jpgJünger constata que la tendencia a la estatización (a la “organización”) se hace más rara a medida que ascendemos en la escala de los animales superiores. En ellos –por ejemplo, en los lobos, en numerosos grupos de aves, etc.- es frecuente hallar ejemplos de socialización, pero muy rara vez asistiremos a los sacrificios que la estatización impone a los insectos. En ese sentido, el hombre ocupa un lugar especial: la estatización no es algo que le sea natural, aunque el proceso de desarrollo de la civilización técnica muestre claras tendencias estatizadoras. En el mundo natural, la tendencia hacia la organización es un rasgo específico de los animales sociales; en el caso de la especie humana, es el síntoma más evidente del avance del proceso de civilización. Y sin embargo, la tendencia a la organización no es inapelable, inevitable; ni siquiera natural. Ese es el sentido de la pregunta que Jünger se formula: ¿Acaso el mundo está lleno de organismos que esperan ser organizados y reivindican tal organización? No, e incluso lo contrario es lo cierto, pues por todas partes puede percibirse como actúa “la tentativa de sustraerse al poder”. De manera que la organización no es un hecho natural, o al menos no lo es más que la resistencia a la organización.

Más allá del Estado y el Mercado

A nuestro juicio, lo que hace especialmente interesante la perspectiva jüngeriana es su capacidad para sentar un marco de interpretación que trasciende las habituales polémicas entre diversas formas de organización, cada una de las cuales pretende a su vez encarnar mayores cotas de libertad. Por ejemplo, ¿cuántas veces se ha invocado la libertad en nombre del Estado? ¿Y cuántas otras veces se ha invocado esa misma libertad en nombre del Mercado y contra el Estado? La división jüngeriana entre organismo y organización nos brinda un esquema bastante más profundo que el que aporta Hayek con su dialéctica entre “orden tribal” y “orden amplio”: la verdadera espontaneidad reside en el organismo, donde los impulsos naturales actúan con mayor libertad; la organización, por el contrario, significa la imposición de una estructura racional sobre los impulsos primarios, y esa estructura no es sólo de tipo estatal, sino que también puede adoptar otras formas. El mercado, sin duda, es una de ellas. Cambian las reglas del ejercicio de la organización, pero no el hecho de la organización en sí. Desde la perspectiva de la organización que se contrapone al organismo, Estado y Mercado no representan fuerzas esencialmente contradictorias, sino que ambas responden a una misma lógica: las dos, por su potencia reglamentadora, normativizadora, constituyen otras tantas formas de organización, esto es, otras tantas formas de someter al organismo, vale decir, a la libertad.

Como suele ocurrir en Jünger, erraríamos el tiro si tratáramos de incorporar juicios de valor demasiado simples a los términos de este esquema. No tiene mucho sentido ver en la organización una suerte de desdicha; más bien se trata de un hecho inevitable, porque cuanto más arriesgada es la vida, más necesaria es la cooperación, esto es, la sociedad. Y toda vida en sociedad, en la medida en que exige la imposición de normas, presenta necesariamente ciertos rasgos de alienación –eso es algo que está en la naturaleza humana. En consecuencia, cuanto más compleja es la sociedad, esto es, la organización, mayor es su carácter alienante. Ahora bien, la tendencia hacia el organismo, hacia la libertad, tampoco deja nunca de estar presente, porque forma parte igualmente de las pulsiones naturales. Y en el caso de la especie humana, además, esta tendencia se hace consciente, pues sólo el hombre es racionalmente consciente de su libertad. En cierto modo, la búsqueda del equilibrio entre organismo y organización es una de las claves fundamentales de la historia natural, no sólo en la especie humana. Toda la cuestión, pues, reside en que el ser humano sea capaz de mantener siempre alta la guardia de su libre albedrío:

“Cuando el Estado y con él el pensamiento organizativo cobran dimensiones enormes, tal como lo están experimentando en el presente los hombres y los pueblos, ocurre que los peligros son en parte sobreestimados y en parte subestimados. Consisten no tanto en la amenaza física que representan para los pueblos y los hombres que los componen –esa amenaza es desde luego evidente- cuanto en el riesgo que corre la especie como tal, sobre todo porque es afectada en su nota específica: el libre albedrío. Ello haría que la luminosidad de una civilidad superior desapareciese en el brillo de la perfección. El peligro real del plan no está tanto en que fracase cuanto en que obtenga un éxito demasiado fácil (…)
La especificidad del ser humano está en su libre albedrío, o sea, en su imperfección; está en su capacidad de convertirse en culpable, de cometer errores. La perfección hace superflua, por el contrario, la libertad; el orden racional cobra entonces la precisión del instinto” (pp. 204-205).

Jünger no cree que la marcha de la civilización, que apunta hacia una creciente complejidad de la organización, hacia una creciente perfección de la técnica , sea reversible. No estamos en condiciones de decidir si queremos entrar en esa nueva casa, porque ésta se nos impone de manera irresistible. Pero sí estamos en condiciones de preguntarnos qué queremos llevarnos con nosotros al entrar en la nueva casa, y aquí es donde Jünger reivindica el libre albedrío como seña principal de la especie humana. La conclusión del texto apunta inequívocamente en esa dirección. Y sostiene, precisamente, que tal cosa será más fácil en el Estado mundial que en los Estados que el mundo han conocido hasta ahora:

“La forma del Estado humano viene determinada por el hecho de la existencia de otros Estados. Viene determinada por el pluralismo. No siempre ha sido así y, esperémoslo, no siempre será así. Cuando el Estado era una excepción en la Tierra, cuando era insular o, en el sentido de su origen, único en su género, los ejércitos de guerra resultaban innecesarios, más aún, estaban fuera de lo imaginable. Eso mismo habrá de ocurrir cuando el Estado en su sentido final se vuelva único en su género. Entonces el organismo humano podría destacar con más pureza como lo auténticamente humano, liberado de la coacción de la organización” (p. 217).

Una libertad difícil

Toda la posición de Jünger frente al Estado/Organización en sus obras posteriores mantiene esta misma línea. La organización, aupada sobre el poder técnico, representa una fuerza que no es posible invertir, aunque sí es posible actuar dentro de ella. En el lado contrario, el organismo, la libertad, no podrá consistir en una declaración de derechos o en una lista de libertades formales, sino en una actitud de espíritu que pasa por mantener el libre albedrío como fundamento de la persona singular.

Todos los protagonistas de novelas jüngerianas como Heliópolis, Eumeswil e incluso El problema de Aladino se caracterizan por ese talante . La misma atmósfera se respira en ensayos como La emboscadura. Y es muy importante subrayar que todo este planteamiento guarda perfecta coherencia con las posiciones del Jünger anterior a 1933. El descreimiento de las libertades formales se halla ya en los textos de la “Revolución conservadora”, al mismo título que la desconfianza en los movimientos basados en “principios universales”. La percepción del Estado como máquina subsidiaria, dependiente de devoradores procesos técnicos, nace en las trincheras de la Gran Guerra y se prolonga a través de La movilización total y El Trabajador hasta llegar a las opresivas ciudades-Estado de Eumeswil y Heliópolis. La idea aristocratizante de la libertad –la libertad interior como signo de una aristocracia del espíritu- enlaza con el anarquista prusiano de El corazón aventurero, el libro que marcó su separación de la órbita nacionalista alemana en 1929, y se prolonga en Sobre los acantilados de mármol y en La emboscadura.

Ahora la pregunta post-jüngeriana podría ser esta: ¿Qué ocurre cuando la nueva casa, el Estado Mundial, exige como señal de entrada la renuncia al libre albedrío, a la libertad interior? Entonces volveríamos a la necesaria insurgencia, al mismo tiempo espiritual y política, que alimentó los grandes incendios de Sobre los acantilados de mármol.

 

Jünger, Ernst “La Paz seguido de El nudo gordiano, El Estado Mundial y Alocución en Verdún”, traducción de Andrés Sánchez Pascual), Tusquets Editores, Barcelona, 1996.

jeudi, 22 février 2018

Europa, Eurasia ? Identité et géopolitique du grand espace continental par Robert Steuckers

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Europa, Eurasia ? Identité et géopolitique du grand espace continental par Robert Steuckers

Méridien Zéro, émission n°330 : « Europa, Eurasia ?
Identité et géopolitique du grand espace continental,
discussion avec Robert Steuckers ».
 
PGL vous propose un entretien avec Robert Steuckers,
à l’occasion de la trilogie qu’il publie aux éditions Bios
et qui est la somme de ses écrits et réflexions sur le
destin de notre continent.
 
Ce sera l’occasion également de revenir sur son
parcours.
La trilogie "Europa" de Robert Steuckers, disponible
sur le site des éditions "Le retour aux sources" : https://www.leretourauxsources.com/25...
 
Le Retour aux Sources Éditeur :
 
 
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samedi, 17 février 2018

Ernst Jünger face aux titans et aux étoiles du Caucase

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Ernst Jünger face aux titans et aux étoiles du Caucase

par Benjamin Fayet

Ex: https://www.philitt.fr

À l’automne 1942, après deux années passées à l’état-major parisien du général Hans Speidel, Ernst Jünger part en mission dans le Caucase. L’offensive allemande contre l’URSS atteint, cette année-là, son apogée. Les divisions du Reich s’apprêtent bientôt à refluer après avoir atteint Stalingrad et les rives de la Volga. De ce voyage dans les ténèbres, l’auteur d’Orage d’acier en tirera un texte court et dense sobrement intitulé Notes du Caucase, inséré dans son Journal parisien.

EJ-Kaufz1855093.jpgPasser des écrits d’Ernst Jünger sur la Première Guerre mondiale à la lecture de son journal parisien, tenu entre 1940 et 1944, peut surprendre. Que reste-t-il alors de l’officier héroïque de 1918 ? Que reste-t-il de celui qui célébrait avec une dimension mystique sa plongée dans la fureur de la guerre des tranchées ?  Que reste-t-il encore de cette expérience combattante qui fit de lui un des officiers les plus décorés de l’armée allemande ? Au cours de ces 20 années, l’homme a incontestablement changé. De son Journal parisien, ce n’est plus l’ivresse du combat qui saisit mais, tout au contraire, l’atonie confortable de la douceur de vie parisienne. S’y exprime la sensibilité d’un homme qui ne semble avoir conservé du soldat que l’uniforme. La guerre y semble lointaine, étonnamment étrangère, alors que le monde s’embrase. L’homme enivré par le combat, le brave des troupes de choc a désormais disparu. L’écrivain semble traverser ce terrible conflit éloigné de toute ambition belliqueuse, porté par cet esprit contemplatif qu’il gardera jusqu’à la fin de sa vie. Celui du poète mais aussi de l’entomologiste, l’homme des « chasses subtiles » comme il appelle lui-même ses recherches d’insectes rares. Et c’est encore, non pas en soldat, mais en naturaliste qu’il semble percevoir, dans le ciel de la capitale occupée, les immersions subites et meurtrières de la guerre. Ainsi, quand il observe, une flûte de champagne à la main, les escadrilles de bombardiers britanniques, la description qu’il en fait prend davantage la forme de celle d’un vol de coléoptères que de l’intrusion soudaine d’engins de morts, prêts à lâcher leurs bombes sur la ville.

Ces occupations dilettantes, Jünger les complète par l’exercice fréquent de mondanités. L’officier multiplie les rencontres avec l’élite culturelle de la capitale. Aussi bien Drieu la Rochelle, Picasso, Jouhandeau, Gide que Céline deviennent les acteurs d’un théâtre parisien qu’il dépeint avec l’intérêt de l’esthète francophile. En revanche, ce que son journal n’évoque que de manière lapidaire et voilée est la place prise par la Wehrmacht en France dans le mouvement d’opposition à Hitler et à la SS. La capitale occupée devient au cours de la guerre un foyer d’opposition dans lequel de nombreux officiers sont liés au comte de Stauffenberg, futur auteur à l’été 1944 de la tentative d’assassinat contre le Führer. Opposé à toute forme d’attentat, Jünger souhaite cependant fermement le renversement du dictateur nazi. Son texte La Paix, dont la lecture marque profondément le général Rommel, devient l’écrit politique sur lequel s’appuient les conjurés. C’est donc officiellement pour un voyage d’étude militaire et, officieusement, pour sonder l’état d’esprit des officiers du front de l’Est qu’il quitte Paris en novembre 1942. Il doit rejoindre les troupes engagées sur les rives de la Volga, bientôt témoins de la destruction de la  VIe armée allemande du général Von Paulus.

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Vers les ténèbres

Après un épuisant voyage, il arrive à Kiev le 21 novembre 1942, capitale ukrainienne du départ de son expédition vers le front. Mais là encore, c’est en observateur passif qu’il aborde ce voyage au plus près pourtant de l’affrontement des deux titans totalitaires qui s’affrontent de Petrograd à la Mer Noire. Et c’est toujours avec ce regard naturaliste qu’il observe cette guerre. Contraint de traverser la rivière Pchich, il se voit confronté à une apocalypse wagnérienne, une vision effroyable  que le génie de Jünger retranscrit avec une saisissante beauté dans un panorama digne des infernales représentations du peintre Jérôme Bosch : « Comme des fourmis, des centaines et des milliers de porteurs, en longues files, charrient vers le front des madriers et des barbelés. En même temps, clamés par une voix surhumaine, des chants de Noël emplissent l’énorme cirque des montagnes : la propagande d’une compagnie de propagande allemande joue “Stille nacht, Heilige nacht”. Et parallèlement, sans arrêts, les lourds coups de mortiers que la montagne répercute. Tout ceci ressemble à un grand cirque enfermé en un cercle démoniaque, et qui n’admettrait dans son enceinte, hormis les couleurs mornes, que la couleur rouge. Ici il n’y a que violence et douleur qui, toutes deux, viennent s’y confondre. » Jünger s’enfonce encore un peu plus dans les ténèbres sur ces terres embrasées où se joue l’avenir du monde. Mais le contact avec le front et le froid de la Russie n’ôte toujours pas la dimension poétique à son regard. Il conserve sa capacité à saisir l’enchantement au-delà de la mort et des destructions. Face à la nature qui l’environne ou à la guerre qu’il subit, Jünger ne quitte jamais la position du contemplateur. Il n’est plus l’homme des coups de main militaires mais des coups d’œil poétiques ; l’esprit perméable à la beauté sous toutes ses formes. Comme l’écrit le critique littéraire Bruno de Césolle, il « fait sienne l’idée du philosophe allemand Johan Georg Hamann dit le “Mage du Nord”, à savoir que la contemplation, et non l’action, est à l’origine de toutes choses ». Une forme de résistance intérieure au monde moderne comme au nazisme et à la destruction, prémisse de ce « recours aux forêts » qu’il théorisera durant l’après-guerre dans son Traité du rebelle. Une nuit, alors que le fracas d’un duel d’artillerie se fait entendre, c’est la magnificence du ciel étoilé qui le bouleverse alors : « Que sommes-nous devant cette splendeur ? Qu’est donc notre éphémère tourment ? »

Les signes de l’apocalypse

Plus il s’enfonce à l’Est, plus sa vision idéalisée de la guerre s’effrite face à ce qu’il semblait déjà percevoir dès la Première Guerre mondiale. Plus encore qu’en 1914, la nouvelle forme de guerre industrielle aboutit à transformer le soldat en rouage d’une machine dans laquelle les anciennes vertus chevaleresques n’ont plus leur place. « Autrefois, écrit-il, alors que nous rampions dans les cratères de bombes, nous croyions encore que l’homme était plus fort que le matériel. Cela devait s’avérer une erreur. »  Dans son livre Le Travailleur, écrit en 1932, il prophétisait déjà l’emprise de la technique sur les hommes et le travail. Celle-ci s’étend maintenant à la guerre, soldats et travailleurs sont maintenant  devenus les enfants de la technique. L’étincelant des médailles, la beauté des uniformes, les couleurs des drapeaux et les rêves de gloire s’effacent brutalement dans ce conflit mécanique dans lequel s’enfonce la civilisation. Eléments contrastés que développera également son frère Frederich Georg dans son livre majeur : La perfection de la technique. Le soldat comme l’officier ne sont plus qu’un minuscule rouage de la superstructure.

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Sur le front de l’Est, plus qu’ailleurs, les soldats sont maintenant des pièces interchangeables à la conscience broyée qui renonceront à s’engager dans la conjuration. Il est ainsi confronté à un effondrement moral du soldat allemand dont les crimes de masse, commis sur ce front, sont le terrible symptôme. Lui qui saluait militairement les porteurs d’étoile jaune à Paris est confronté à de multiples témoignages qui font état d’exactions envers les Juifs et les populations occupées. « Ce sont là des rumeurs, que je note en tant que telles ; mais il est sûr que se commettent des meurtres sur une grande échelle » S’il avait encore un doute sur la destruction définitive de l’idéal chevaleresque, il est désormais levé. Le heaume a été remplacé par le casque d’acier. Avec l’âge industriel, le nihilisme l’a emporté : « L’homme a donc atteint ce stade que Dostoievski décrit à travers Raskolnikov. Il considère alors ses semblables comme de la vermine. » Son ami Carl Schmitt écrit dans Le Nomos de la terre une idée similaire alors que les villes allemandes s’embrasent une à une sous les vagues de bombardiers alliés : « Le bombardement aérien n’a pour sens et fin que l’anéantissement. » Alors que Stalingrad s’apprête à tomber et que son humeur s’assombrit face au futur cataclysme militaire qu’il pressent, il reçoit l’annonce de la mort de son père le 8 janvier 1943. Il quitte alors précipitamment la Russie et retourne chez lui à Heidelberg.

Malgré la brièveté de ce voyage de trois mois, il s’envole vers sa ville natale avec maintenant quelques certitudes : les officiers allemands sur le front de l’Est ne soutiendront pas la conjuration. Il a acquis aussi l’intime conviction que l’Allemagne se dirige vers une inexorable défaite, la marche funèbre du Crépuscule des Dieux résonnera à Berlin.  

samedi, 10 février 2018

Luc-Olivier d'Algange : Le réenchantement du monde - causerie autour de Jünger

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Luc-Olivier d'Algange : Le réenchantement du monde - causerie autour de Jünger

L'écrivain Luc-Olivier d'Algange venait présenter au Cercle Aristote son dernier ouvrage sur la figure d'Ernst Jünger en compagnie de l'association Exil H.
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vendredi, 09 février 2018

Voyage dans le temps - Hermann von Keyserling

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Hermann, comte von Keyserling,  Philosophe allemand d'origine balte, né le 20 juillet 1880, décédé le 26 avril 1946

Voyage dans le temps

Hermann von Keyserling

Extraits (Sélection de Georges Hupin) :

- 1 - Cependant, une mère qui n'est pas une éducatrice de l'âme dans le sens de la transmission d'une tradition, ne mérite pas son nom. Cela est le seul fondement valable du fait que, dans aucune société saine, les enfants illégitimes ne sont placés sur le même rang que les enfants légitimes.


- 2 - On disait généralement que mon père adulait sa femme et l'admirait au-delà de toutes les bornes de la raison. En effet, non seulement il lui abandonnait la direction de sa maisonnée, mais son être tout entier, il se laissait choyer comme un enfant et conseiller par elle en toute chose.
     De son côté ma mère lui donnait son cœur tout entier, ce qui lui permettait de mettre pleinement en valeur son caractère exceptionnellement fort et puissant et de vivre jusqu'au bout son exclusivisme qui confinait à la dureté : c'est là ce dont elle avait besoin. Elle régnait absolument sur tout en gardant l'apparence de servir. […] Elle s'était donnée si exclusivement à son mari et à ses enfants que sitôt après son mariage, elle était devenue pour ainsi dire étrangère à sa propre famille […] Jour et nuit, elle faisait infatigablement tout ce qui était nécessaire pour son mari et ses enfants, car sa capacité d'action était immense […] En vertu de quoi mon père, qui lui avait donné tout son cœur et qui croyait aveuglément en elle, était parfaitement heureux. Et quant à elle, du moins croyait-elle l'être.


- 3 - Ma mère manquait complètement de souplesse, elle était passionnée et colérique, avec une tendance à la brutalité et à une certaine grossièreté d'expression. Elle était dominatrice et despote, mais comme elle avait sans cesse à faire et que les gens lui obéissaient au doigt et à l'œil, son énergie se déployait en général de manière bienfaisante. Comme chef de la maison, mon père était un véritable pacha et à ce titre-là, fort exigeant, bien qu'il fût doux et délicat de nature ; il se sentait tellement seigneur et maître, aussi bien dans le sens de la domination que dans celui de la possession, que je n'ai jamais rencontré son pareil plus tard en aucun lieu. Il considérait aussi sa femme comme sa propriété et il était si jaloux de nature, que dans notre enfance il lui arriva d'être de mauvaise humeur durant plusieurs jours parce que ma mère s'était intensément vouée à de jeunes cigognes noires que l'on avait apportées à la basse-cour pour nous autres enfants. […] dans sa féminité primitive, ma mère semblait apprécier assez ce genre "pacha" et ce sentiment possessif chez mon père. Elle-même était d'ailleurs excessivement jalouse, considérant par exemple ses enfants comme sa possession exclusive.


HvK1.jpg- 4 - Là était la beauté de l'ancien ordre aristocratique : chacun était pleinement respecté dans son caractère spécifique, à son rang reconnu, et chacun se comportait sincèrement selon ce rang, de sorte qu'il ne pouvait y avoir de conflits nés de la jalousie ou de l'envie.


- 5 - Après la mort de mon père, ma mère fut complètement perdue […] Elle devint de plus en plus intime avec lui [le précepteur de Hermann Keyserling] […] Nous autres enfants, bien entendu, ne remarquions rien de ce qui se passait […] parce que notre sentiment de la différence de niveau qui séparait de notre famille ce jeune homme, excluait à nos yeux toute relation intime. Aujourd'hui, hélas ! ce sentiment élémentaire du niveau social n'existe presque plus chez les jeunes gens ; il suffit pour eux qu'on soit gentil et sympathique à tous égards : toute autre considération passe pour être un préjugé aristocratique ou bourgeois et est éliminée d'office. […] Il n'y a rien de plus essentiel que les différences de niveau ; elles […] créent sur ce plan des limites aussi infranchissables que celles qui séparent une espèce animale d'une autre. […] Celui qui est né un seigneur est essentiellement un seigneur-né, de même que celui qui est né un serviteur est un serviteur-né. Là où cela n'est pas clairement entendu, il y a toujours une dégénérescence psycho-intellectuelle […] un soir […] ma mère me déclara qu'elle ne pouvait faire autrement que d'épouser l'ancien précepteur […]


- 6 - Cette génération [les ancêtres de Keyserling] possédait encore le sentiment très vif qu'il était tout naturel qu'elle occupât une position privilégiée, sentiment que l'on ne retrouve plus chez les générations suivantes. […] Aristote, qui enseignait que l'égalité est le véritable rapport entre égaux, mais qu'entre gens inégaux c'est au contraire l'inégalité. […] Les monarchies ne s'écroulent jamais quand les rois les tiennent solidement en main, et, dans l'histoire, rares sont les révoltes de paysans au temps où les seigneurs étaient forts et conscient de leur force. L'oppression suscite rarement la révolte, mais la faiblesse toujours, et l'on a tôt fait d'interpréter faussement l'humanité et la libéralité comme de la faiblesse.
[Comme dans Le chat et les pigeons d'Agatha Christie.]


- 7 - Mon père était si doux dans son commerce avec autrui qu'à une époque où cela pouvait passer pour un tour de force, il ne se battait jamais en duel. Cela ne l'empêcha pas de me dire, alors que j'avais tout juste treize ans : "Si jamais un professeur a l'audace de porter la main sur toi, tue-le d'un coup de revolver ; peu importent les conséquences". Dans cet ordre, en apparence si peu pédagogique, s'exprimait le sentiment que nous autres, gentilshommes baltes, nous ne pouvions nous maintenir que très exactement dans la mesure où nous ne nous plierions pas à ce que les autres trouvaient bon, et où nous défendrions notre position privilégiée non seulement sans tenir le moindre compte de l'esprit de l'époque mais avec une folle témérité.


- 8 - Il est ridicule de prétendre, comme on le fait malheureusement trop souvent ces derniers temps, qu'ils [les ancêtres de Keyserling] aient "lutté" contre la russification, contre les Esthoniens ou contre la barbarie. Le seigneur ne lutte pas contre ce qui est en dessous de lui, il le domine, le guide, l'éduque. […] Tous mes ancêtres, qui ont défendu leur caractère germanique […] l'ont fait au nom de leur être propre, senti par eux comme supérieur, mais qui, en tant que tel et selon l'impératif "Noblesse oblige" créait des obligations et ne justifiait aucune sorte de ségrégation. Leur devise inexprimée n'était pas celle que Leopold Ziegler présentait après 1918 comme celle de l'homme noble : "Servir, et non se servir", mais : "Ni se servir, ni servir, donner généreusement." Ils avaient l'assurance souveraine de l'homme vraiment souverain, qui n'a besoin d'aucun aiguillon extérieur pour donner le meilleur de soi-même et qui à plus forte raison n'attend aucune reconnaissance.


- 9 - Le type du seigneur balte avait des racines psychologiques et sociologiques ; il était le produit de la tension qui opposait une infime minorité à une couche inférieure beaucoup plus nombreuse qu'elle ne se contentait pas de dominer, mais dont elle prenait soin, consciente de ses responsabilités […] Ainsi s'est opéré, au cours des temps chez le type le plus accompli du gentilhomme balte, une sorte de synthèse du sentiment de responsabilité du prince qui veut le bien de ses sujets, de la conscience aristocratique du Romain, proclamant fièrement Civis romanus sum, et du colon anglais. Ce n'est donc pas sans raison qu'un historien allemand a prétendu que le seul type d'homme des temps modernes avec lequel les Baltes aient quelque ressemblance était celui du colon anglais des États du Sud, en Amérique du Nord, avant qu'il ait été médiatisé par la guerre de Sécession. […]
     Ainsi mes ancêtres ont défendu leur originalité non par étroitesse de vue et de cœur, en s'opposant à d'autres sur le même plan qu'eux et en les combattant, mais au nom de leur être propre, ressenti par eux comme supérieur, et qui, de ce fait, leur créait des devoirs.


- 10 - […] après qu'on eût porté le cercueil [du père de Keyserling] dans la salle, de fidèles serviteurs, en particulier les gardes forestiers de Könno, de vrais vassaux, montèrent en pleurant la garde funèbre. Jamais aucun de nos gens ne fut effleuré par l'idée que mon père, en tant que seigneur, n'était pas leur maître à tous. Il était si naturellement le seigneur qu'il lui suffisait d'être là, plein de douceur, et de guider doucement pour que tous lui offrissent leurs services.


HvK2.jpg- 11 - Pour moi, dès ma prime jeunesse, je n'étais jamais tombé amoureux ; en tout cas je ne m'étais jamais avoué qu'un amour germait en moi, car mon inconscient très puritain n'admettait pas la simple possibilité d'une chute dans la sensualité, condamnée comme une faiblesse. En outre la conscience des hommes baltes de ma génération qui furent plus ou moins mes contemporains, était encore entièrement déterminée par la tension : sanctuaire inviolable - vice […] ce qui les conduisait d'une part à idéaliser démesurément la femme dite "comme il faut", d'autre part à traîner dans la boue, avec autant d'exagération, toute femme qui menait une vie contraire à l'idéal, ce qui excluait une vie amoureuse libre sous la forme de la beauté.


- 12 - Le fait que, chez l'homme, les sens mènent, à tous les âges, une vie à part, tient à sa physiologie, et plus encore au penchant qui incline la plupart des hommes vers la laideur des bas-fonds, et auquel ils ne peuvent - et le plus souvent aussi ne veulent s'adonner avec un être qui fait vibrer leur âme. Gustave Flaubert s'est fait l'interprète de beaucoup d'hommes quand il a écrit très justement : "On peut adorer une femme et aller chaque soir chez les filles."
[Comme Simenon.]


- 13 - Je compris alors une fois pour toutes combien nos sentiments personnels et nos opinions - qui reposent toujours sur des préjugés - font obstacle à notre évolution si nous les prenons au sérieux. Or aucun type humain ne le fait autant que l'Anglo-Saxonne, surtout l'Américaine. Elle accepte moins que toute autre de reconnaître des différences de niveau et par suite une hiérarchie des valeurs. "Mon opinion vaut bien la vôtre", tel est son dernier argument. Et elle croit avoir le droit de détruire un rapport essentiellement profond entre deux êtres, tel que le mariage, pour peu que le mari ait un caractère difficile ou des habitudes qui ne lui plaisent pas. Voilà pourquoi les Américaines se font si peu scrupule de quitter un homme pour un autre. Voilà pourquoi […]  le niveau des livres américains les plus lus est extrêmement bas et pourquoi les esprits qui jouissent en Amérique du plus grand prestige sont si médiocres […] car outre-Atlantique c'est la femme qui détermine le goût […]


- 14 - Le premier objet d'authentique vénération que je trouvai et le plus important fut Houston Stewart Chamberlain. […]  Je laissai de côté ce qui fit de Chamberlain une puissance morale politique, son racisme, son pangermanisme, ses vues antidémocratiques et antilibérales ; ces particularités, je les lui "passai" […]  Personnellement ces opinions ne m'intéressaient pas ; à cette époque-là j'étais rigoureusement apolitique.
[En fait Keyserling n'a pas dû se forcer beaucoup pour admirer Chamberlain, parce qu'il était lui-même aristocratique, antidémocratique et antilibéral.]

jeudi, 01 février 2018

Pourquoi l’écologie est nôtre. Ré-enchaîner Prométhée

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Pourquoi l’écologie est nôtre

Ré-enchaîner Prométhée

Partie I

par Thierry DUROLLE

Comme le soulignait très justement le philosophe italien Julius Evola (1), les mots n’échappent pas au processus total d’involution, ce qui résulte en une perte de sens, en un galvaudage et, pire, à une substitution de sens. Le terme de « païen » ne se soustrait donc pas à la dégradation de son sens originel, c’est-à-dire à celui de « paysan » (2).

Le paganisme peut susciter de nombreuse interrogations quant à sa pratique et quant aux différentes façon d’être païen. Étant donné que cette forme spirituelle ne possède pas de dogme, la porte reste ouverte à tout et n’importe quoi, notamment le néo-paganisme, démarche obsolète et souvent ridicule. Il convient de balayer d’un revers de main ces manifestations de « religiosité seconde ».

appel-aux-dieux-essais-sur-le-paganisme-dans-un-monde-oublie-de-dieu.jpgEnsuite, certains appliquent un verni (pseudo-)polythéiste à l’athéisme. Tel est le cas d’Alain de Benoist, notamment, à l’époque de son livre Comment peut-on être païen ? (3). Faisant fi de son athéisme, il faut tout de même saluer le « paganisme philosophique » professé dans cet ouvrage de qualité. En ce qui nous concerne, notre critique du livre d’Alain de Benoist demeure semblable à celle de l’auteur américain Collin Cleary (4) qui lui oppose un polythéisme théiste aux accents heideggériens.

La question du polythéisme, et de la manière d’être païen, nécessiterait un article à part entière, si ce n’est pas un ouvrage complet. Nous ne pouvons donner ici que quelques pistes avant d’approfondir notre sujet. Renouer avec les textes fondateurs de l’Europe pré-chrétienne est indispensable : L’Iliade et L’Odyssée d’Homère, La théogonie d’Hésiode, Les métamorphoses d’Ovide, les sagas nordiques et les textes du cycle arthurien. Quant aux écrivains et penseurs païens contemporains, impossible de tous les citer ici. Néanmoins, nous conseillons trois lectures aux personnes intéressées par ce sujet. Tout d’abord, le numéro 73 de la revue Terre & Peuple (5) dont le dossier central porte justement sur le paganisme. Puis L’Âme européenne. Réponses à Bernard-Henri Lévy (6) de Robert Dun (précurseur dans notre milieu du sujet central développé dans cet article) et, enfin, Histoire et tradition des Européens. 30 000 ans d’identité (7) de Dominique Venner. Ces titres devraient apporter, dans un premier temps, une lumière bienvenue sur ce thème fondamental.

pitie-pour-le-cosmos-bkhnes.jpgLe sujet que nous abordons constitue peut-être la racine principale de ce que l’on nomme paganisme : la relation de l’homme à sa terre, à la nature et au Kosmos; ces relations, ou plutôt interrelations, nous pourrions les réunir dans une seule expression, celle d’« écologie profonde » (ou « écologie intégrale »). Préoccupation majeure, l’écologie est malheureusement délaissée par de nombreuses personnes se réclamant de Droite au titre qu’elle serait de Gauche. Grave erreur ! La Gauche (extrême) a mis le grappin sur les questions environnementales, car la Droite radicale – sauf certains mouvements faisant exception comme feu le MAS ou, dans un registre plus « folklorique » dirons-nous, le Greenline Front – a abandonné ce thème qui fut le sien à l’origine. Heureusement vient de paraître aux éditions Akribeia un livre qui, nous espérons, remettra les pendules à l’heure, Piété pour le cosmos de l’Italien Giovanni Monastra et du Français Philippe Baillet.

Sans doute n’est-il pas nécessaire de présenter Philippe Baillet, illustre traducteur de Julius Evola, essayiste, auteur de nombreux articles (nous pensons notamment à la revue de tendance traditionaliste-révolutionnaire Totalité; saluons aussi son article écrit pour le dossier du numéro du magazine Terre & Peuple susnommé) et de plusieurs essais. Quant à Giovanni Monastra, il doit probablement être inconnu du public français. Son profil est très intéressant, car Monastra a une formation scientifique (il effectua des recherches dans les domaines de la neuropharmacologie, de l’immunopharmacologie) et se réclame également de la pensée traditionnelle, principalement d’Evola. Autant dire que nous avons affaire à un mélange explosif ! Le premier de nos auteurs, traduisant l’étude du second – et qui figure dans cet ouvrage – eut l’envie de contribuer, lui-aussi, à ce sujet essentiel qu’est l’écologie. Voici comment Piété pour le cosmos vit le jour.

GM-vita.jpgLa première partie de l’ouvrage s’intitule « Les racines révolutionnaires-conservatrices de la pensée écologique », elle est l’œuvre de Giovanni Monastra. Celui-ci débute son exposé par un constat évident, à savoir la césure entre l’homme et la nature, séparation qui s’est d’autant plus accéléré à cause de la révolution scientifique et de la révolution industrielle. Cet état dichotomique procède de la dégradation cyclique, la relation entre l’homme et la nature n’a pas toujours été ainsi comme le rappelle l’auteur. Les sociétés traditionnelles connurent une relation empathique et holistique de la nature. « La première modalité, dominante par le passé et qui renaît de nos jours, consiste en une approche empathique et holistique, donc une approche qui perçoit et “ sent ” la réalité vivante comme un Tout au sein duquel les différentes parties, du niveau microscopique aux macrosystèmes en passant par celui où nous nous situons, ont certes leur autonomie (et cela vaut en premier lieu pour l’homme, dont la liberté est hors de question), mais où cette autonomie ne revient pas à nier les interrelations profondes qui existent entre les parties. Tout cela s’accorde avec la conception de la nature comme “ puissance ” créatrice et sacrée (pour les cultures prémodernes), force unitaire ordonnée et complexe, gouvernée par un équilibre délicat qu’il ne faut pas enfreindre, mais au contraire respecter, si bien qu’il importe de ne pas dépasser certaines “ limites ” (p. 11.). »

Ces « limites » sont d’une importance capitale car elles garantissent l’équilibre naturel. Notre civilisation (devrions-nous pas l’orthographier Zivilisation ?), que l’auteur qualifie de « faustienne », ou « prométhéenne », avec son axiome indépassable du Progrès ne peut qu’enfreindre ces limites. Le respect scrupuleux de celles-ci et, par conséquent, la lutte contre le prométheisme caractérise normalement toute écologie (ante litteram) véritable. « Il est fermement établi que la conception “ traditionnelle ” du monde est porteuse d’éléments culturels qui impliquent l’« endiguement » de la poussée prométhéenne, donc qui tendent à conserver, en freinant certaines tendances à la domination incontrôlée et rapace de la nature, tendances latentes chez l’homme en tant que tel, hier non moins qu’aujourd’hui (p. 13). »

À cause de ces tendances prométhéennes, l’homme envisage différemment la nature qu’il se contentait jusqu’à présent de respecter, toujours dans le cadre holiste des sociétés traditionnelle. Dorénavant, la nature est vu d’un point de vue mécaniste, rationaliste et scientiste; l’homme sort de la nature, et « le monde devient un champ d’expérimentation illimité, les seules limites étant celles imposées par les moyens techniques (p. 15) ». Giovanni Monastra poursuit : le monde « est comparé à un gigantesque laboratoire, où il convient de réaliser, c’est-à-dire de satisfaire, tous les rêves de puissance, de bonheur et de bien-être de l’homme complètement absorbé et englouti dans son aveugle hédonisme consumériste (p. 15) ». Ce qu’il faut retenir, c’est que l’« on assiste au passage de la technique traditionnelle comme « imitation de la nature » à la technique moderne comme « subversion de la nature (p.15) ». La conséquence ? « La nature devient muette : elle se referme sur elle-même et ne nous permet pas de la connaître à fond et complètement. Elle nous devient étrangère (p.17). »

GM-port.jpgAvant d’évoquer plusieurs précurseurs de l’écologie, et d’autres défenseurs de la nature, Giovanni Monastra se devait de mentionner le rapport entre la Gauche et les mouvements de préservation de la nature de manière générale. De nos jours, les partis écologistes sont souvent synonyme de partis d’extrême gauche, à tel point qu’un politicien comme Jean-Marie Le Pen les qualifiait de « pastèques » puisque vert à l’extérieur et rouge à l’intérieur, cette couleur désignant, bien entendu, leur véritable couleur politique. Assimiler l’écologie et la Gauche est « une énorme tromperie, qui a malheureusement pu s’appuyer aussi sur la façon de penser et le comportement concret […] d’une large faction des milieux de “ droite ” européens (p. 18) ». Pourtant, quelle soit marxiste ou pas, la Gauche ne fut pas toujours l’amie de l’écologie. « Elle a toujours exalté les vertus émancipatrices du progrès matériel sous toutes ses formes, au point de se faire la championne la plus stupide de l’industrialisme le plus exacerbé, à l’origine de toutes les pollutions. Le marxisme, lui, a toujours été intrinsèquement hostile aux perspectives écologistes. […] Selon Marx, la nature doit être “ humanisée” à travers la science afin de transformer la valeur intrinsèque du milieu en valeur d’usage pour l’homme (p. 19). »

Si nous remontons dans le temps, il apparaît très clairement que deux visions du monde antagonistes s’affrontent, celle issue des Lumières et celle qui provient du romantisme. La première est mue par l’idée de Progrès et de la domination de la nature par l’homme pour l’homme. La seconde « est volontiers antiprogressiste, holiste, organiciste, vitaliste, plus ou moins mystique (parfois dans un sens néopaïen), empathique envers la nature (p. 23) ». Cette dernière possède les valeurs promptes à la défense de la nature, elle instaure ainsi les fondements d’une pensée écologique ante litteram. L’Allemagne est le berceau de ce que l’on appellera plus tard l’écologie. « Ce fut précisément dans l’Allemagne de la fin du XIXe siècle que se forma un courant écologiste très actif, autour de quelques idées-forces. Il faut signaler en premier lieu les conceptions anthroposophiques de Rudolf Steiner, défenseur de l’agriculture biodynamique, puis les orientations antibourgeoises des Wandervögel (“ Oiseaux migrateurs ”), un mouvement de jeunesse non politique au sens strict, mais existentielle et culturel, animé par des idéaux nationaux-conservateurs, et enfin la composante ruraliste, nourrie par le mythe “ Sol et Sang ” (Blut und Boden), tournée vers la formation d’une nouvelle aristocratie spirituelle et très hostile à la modernité, à l’industrialisation, à l’urbanisation effrénée et à l’internationalisme niveleur, ennemi des identités populaires (p. 25). »

Citant l’historien George L. Mosse, Monastra montre bien l’influence sur le réenchantement entre le peuple et sa terre via l’intermédiaire du romantisme. Il « a bien fait ressortir l’influence du romantisme sur l’intérêt croissant pour la nature lié au bien-être du Volk dans les milieux “ nationaux ” allemands à la fin du XIXe siècle et au début du siècle suivant. Mosse a également souligné l’intégration panthéiste des racines historiques du Volk dans la nature, conformément au sentiment de la correspondance de l’homme, par l’intermédiaire de son âme, avec le paysage et ainsi avec le Volk incarnant l’esprit vital du cosmos (p. 25) ».

klagesttttttt.jpgGiovanni Monastra va donc ensuite énumérer, en les présentant eux et leur idées, différents penseurs écologistes ou proche de la nature. Citons Ernst Haeckel, Ernst Moritz Arndt, Wilhelm Heinrich von Riehl, l’écrivain norvégien Knut Hamsun, les frères Friedrich Georg et Ernst Jünger, Oswald Spengler – qui dénonça « la domination de la technique [qui] nourrit la toute-puissance de l’économie et la diffusion cancérigène du marché, tout en s’en nourrissant elle-même (p. 46) » – Konrad Lorenz, Alexis Carrel, Ortega y Gasset, Julius Evola, René Guénon, etc. Parmi tous ces brillants penseurs, Giovanni Monastra s’intéresse particulièrement à un personnage regrettablement méconnu en France : Ludwig Klages (photo).

Nous omettrons volontairement une succincte biographie de cet auteur allemand, pour le moment du moins… Concentrons-nous sur ce qui, chez Klages, suscite l’intérêt de Giovanni Monostra. Notons déjà qu’il rédigea un manifeste écologiste en 1913 qui fit date (8). Analysant la pensée de Klages, Monostra souligne que l’« on voit s’exprimer ici [chez Ludwig Klages], il y a donc un siècle, plusieurs thèmes chers à l’écologisme de ces dernières décennies : la dénonciation de l’aliénation urbaine, de la pollution, du trafic routier, la conscience de la perte de l’empathie humaine envers la nature. […] De manière prémonitoire, il dénonce les dommages infligés au milieu par les troupeaux de touristes (pp.36 et 38) ». Ludwig Klages fustigeait l’idéologie du Progrès, tout autant que son pendant technique qui remettra l’homme au servage, dans les usines, au service d’un patron.

meditations-du-haut-des-cimes-2016.jpgGiovanni Monastra, se réclamant de l’immense œuvre de Julius Evola, met brièvement en lumière la pensées du philosophe italien concernant la nature ou plutôt sa vision de la nature, bien qu’elle ne représente pas un sujet à part entière dans son œuvre. Notons qu’Evola critiquait tout mouvements de « retour à la nature » qu’il identifiait à une réponse catagogique à un vide existentiel, les deux émanant d’une société « crépusculaire et décomposée ». Evola connaissait bien l’un des aspects de la nature, celui qui défie les hommes et les pousse à se surpasser, quitte à y laisser la vie. Alpiniste chevronné sa vision de la nature ne se targue d’aucun matérialisme, ni d’aucun sentimentalisme, Giovanni Monastra cite le philosophe. Il « s’agit donc de rendre à la nature – à l’espace, aux choses, au paysage – ce caractère lointain et étranger à l’homme qui était couvert à l’époque de l’individualisme, quand l’homme projetait dans la réalité, pour se la rendre proche, ses sentiments, ses passions, ses petits élans lyriques. Il s’agit de redécouvrir le langage de l’inanimé […]. C’est de cette façon que la nature peut parler à la transcendance (p. 60) ».

Monastra explique très bien que pour Evola, « la nature incontaminée est avant tout expression du primordial et de l’inaccessible, qui renvoie symboliquement, dans son objectivité pure, au sacré, au numineux, dont elle est saturée. L’approche évolienne est donc éloignée de l’« humain trop humain », et c’est pourquoi, sans doute, elle paraît « indigeste » à beaucoup : elle exprime une écologie digne du bouddhisme zen, à des distances abyssales de tout sentimentalisme et de toute rhétorique fastidieuse (p. 60) ».

En conclusion, Giovanni Monsatra conseille en premier lieu au lecteur de méditer les pensées des différents auteurs cités à travers son article. Puis, il appelle de ses vœux la « création » d’un anthropocentrisme « écocompatible ». « On n’échappe as à son destin en se cachant, mais plutôt en exposant sous une forme claire un nouvel anthropocentrisme “ écocompatible ”, responsable et solidaire, ancré dans des valeurs fondatrices, réellement conscient de la dimension temporelle et de la succession des générations, à l’égard desquelles nous avons des devoirs imprescriptibles (p. 67). »

Selon l’auteur, « une approche écologique identitaire, et jamais prédatrice, non fondée sur le culte du développement et l’exploitation, permet de privilégier la vocation spécifique d’un lieu et d’en mettre en valeur les particularités (p. 68) ». Mais, ce qui transparaît avant tout dans l’essai de Monastra, c’est l’urgence d’un retour à l’organicité (ou holisme). « La tâche d’aujourd’hui qui apparaît essentielle consiste à faire un travail culturel de recomposition d’un tout unitaire (p. 68). »

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De ce roboratif essai, qui constitue la première partie de Piété pour le cosmos, nous retiendrons quelques idées directrices dont l’importance se révèle cruciale pour l’établissement d’une écologie profonde conforme à notre vision du monde. Parmi elles, mettre un terme à l’hybris, trait de caractère de notre civilisation faustienne, en réhabilitant un « juste retour à la limite ». Plus que jamais, il est grand temps de ré-enchaîner Prométhée ! Cela devrait permettre à l’homme de se « ré-intégrer au monde » dans une logique biocentrique, donc de reconsidérer la nature et les interactions qu’il a avec elle. Les idées fantaisistes de développement durable ou de Green Economy prônées par les pseudo-écologistes, et les bonnes âmes, ne sont que foutaises. Une écologie intégrale ne sera jamais conciliable avec l’économie de marché et le libéralisme, même dans sa variante libérale-libertaire. Bien que le sujet ne soit que légèrement effleuré par Giovanni Monastra, l’enracinement nous semble une condition sine qua non. Nous entendons par enracinement un sentiment d’appartenance au sol de ses ancêtres par exemple ou un attachement émotionnel/spirituel fort à une « patrie charnelle ». Va de paire l’exaltation du Beau (et du Bien), le fameux Kalos Kagathos, ré-apprendre à s’émerveiller devant une cascade ou une forêt plutôt qu’applaudir l’implantation d’éoliennes qui défigurent le paysage. Grâce à ce texte de Giovanni Monastra, l’homme de Droite redécouvrira les liens qui l’unissent à la terre, et (re)découvrira peut-être que la défense de la nature ne fut jamais et n’est toujours pas l’exclusivité des crasseux à dreadlocks et des écologistes de salon.

Thierry Durolle

Notes

1 : Julius Evola, « L’affaiblissement des mots », dans L’Arc et la Massue, Éditions Trédaniel, 1996.

2 : Du latin paganus, paysan.

3 : Alain de Benoist, Comment peut-on être païen ?, Albin Michel, 1981, réédition Avatar Éditions, 2009.

4 : Collin Cleary, L’appel aux dieux. Essais sur le paganisme dans un monde oublié de Dieu, Les Éditions du Lore, 2016.

5 : Magazine Terre & Peuple, n° 73, équinoxe d’automne 2017, « Paganisme pour aujourd’hui et pour demain ».

6 : Robert Dun, L’Âme européenne. Réponses à Bernard-Henri Lévy, L’Anneau, 1993, nouvelle édition, chez l’auteur, 1994.

7 : Dominique Venner, Histoire et tradition des Européens. 30 000 ans d’identité, Éditions du Rocher, 2002, réédité en 2004.

8 : Ludwig Klages, L’Homme et la Terre, RN Éditions, 2017.

• Giovanni Monastra, Philippe Baillet, Piété pour le cosmos, Akribeia, 2017, 176 p., 15 €.

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Pourquoi l’écologie est nôtre. De l’utilité d’être intelligemment conservateur

Partie II

par Thierry DUROLLE

Dans la première partie de notre article sur Piété pour le cosmos, nous avions décortiqué la première partie de l’ouvrage. Giovanni Monastra y rappelait les bases de l’écologie envisagée d’un point de vue traditionaliste, celle-ci s’apparentant à la Deep Ecology (biocentrée et en opposition avec la Shallow Ecology anthropocentrée), puis l’auteur énumérait un certains nombre d’auteurs ayant influencé cette pensée écologique issue majoritairement du romantisme allemand.

Cette partie était à l’origine un article. Celui-ci eut un effet stimulant sur son traducteur, Philippe Baillet, co-fondateur de la revue Totalité et traducteur émérite, entre autre, de Julius Evola. En plus de la version de l’article originale, Philippe Baillet décida d’écrire une contribution sur l’écologie qui se nomme par conséquent « Conservation, conservatisme, national-socialisme, écologie : des liens très étroits ».

À la vue de la longueur de la première partie de cette recension, cette deuxième partie sera volontairement beaucoup plus courte.

lorenzkraehe.jpgPhilippe Baillet débute son étude avec la notion de conservatisme. Le dictionnaire Larousse propose la définition suivante : « Attitude ou tendance de quelqu’un, d’un groupe ou d’une société, définie par le refus du changement et la référence sécurisante à des valeurs ou des structures immuables (1). » Un brin réducteur tout de même que cette définition. Nonobstant les a priori partisans sur le conservatisme, le bon sens voudrait que sa définition première corresponde au maintien et à la préservation de ce qui est bien pour une société ou une nation. Ainsi préserver, conserver la nature intacte n’est-il pas, au-delà de la nécessité vitale, une question politique de bien commun ?

Baillet rappelle également l’importance que revêtait, au sein du national-socialisme, la défense de l’environnement et de la protection des animaux, et par conséquent l’application en terme politique de la compréhension du Sinn der Erde national-socialiste. La programmation mentale post-Seconde Guerre mondiale fut efficace en ce qu’il s’agit de la dénazification et de l’occultation des tenants et des aboutissants de la politique hitlérienne. Personnellement, nous avions découvert la dimension écologique du IIIe Reich via la revue Terre & Peuple (2). Quoi que l’on pense du national-socialisme, les lois du 24 novembre 1933 sur la protection des animaux, du 19 juillet 1934 et du 1er juillet 1935 sont exemplaires.

Parmi les sujets évoquées dans la riche étude de Philippe Baillet, il nous semble impératif, en tant que païen identitaire, d’évoquer le concept d’Heimat. Contrairement à Das Vaterland, « la terre des pères », expression possédant un sens juridique dans la langue de Goethe, l’expression Die Heimat, « le pays natal », possède un caractère essentiellement organique impliquant de facto l’enracinement. « La Heimat peut donc être perçue même en l’absence d’un État. Elle ne renvoie pas à un concept juridique, c’est une réalité d’ordre phénoménologique : elle relève volontiers du “ ressenti ”, comme on a coutume de dire aujourd’hui, mais au sens le plus fort du terme (p 92). »

Plus développée, cette partie du livre écrite par Philippe Baillet a notre préférence. Nous regrettons l’absence d’éclairage sur certains mouvements tels l’Artamanen Gesellschaft, et plus généralement, la mouvance Völkisch. Il est d’ailleurs vraiment regrettable qu’aucun ouvrage, qu’aucune étude ne soit disponible en français sur le sujet… Globalement Piété pour le cosmos est un excellent livre sur l’écologie vue de Droite. L’ouvrage aurait pu sans doute être plus complet, mais la présence de nombreuses références devraient permettre aux intéressés de la question écologique d’explorer de nouveaux horizons.

Thierry Durolle

• Giovanni Monastra – Philippe Baillet, Piété pour le cosmos, Akribeia, 2017, 176 p., 15 €.

Notes

1 : Nous citons la définition trouvée sur www.larousse.fr.

2 : cf. Terre & Peuple Magazine, n°41, automne 2009.

Een wereldorde gewrocht op wereldzeeën

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Een wereldorde gewrocht op wereldzeeën

door Jonathan Van Tongeren

Ex: http://www.novini.nl

In zijn boek Land en zee schetst de Duitse staatsrechtsgeleerde Carl Schmitt (1888-1985) de geopolitieke bronnen van het internationale recht en de Anglo-Amerikaanse wereldhegemonie, hij lokaliseert die in de overgang van de Britten van een eilandnatie naar een echte zeemacht.

In de eerste hoofdstukken van zijn boek schetst Schmitt de ontwikkelingen in de scheepvaart, de verkenning en de uiteindelijke beheersing van de zeeën. Hij gebruikt daar ettelijke hoofdstukken voor, waarmee hij ook het punt van de grote geleidelijkheid van deze ontwikkelingen overbrengt. Eerst was er wel zeevaart, maar waren er nog geen echte zeemachten, de zee begon als kustvaart en later beperkten handelsmachten als Genua en Venetië zich aanvankelijk tot binnenzeeën als de Middellandse Zee en de Zwarte Zee. Pas in de loop van de vijftiende eeuw gaat men de kust van Afrika verkennen, rondt men uiteindelijk de Kaap en trekken ontdekkingsreizigers als Vasco da Gama en Magellaan er op uit. En Columbus niet te vergeten.

schmitt.jpg.pagespeed.ic.Fn7rzaPS8K.jpgMaar het zijn protestanten in Noordwest-Europa die zich tot echte zeemachten ontwikkelen, doordat watergeuzen en piraten een primaire afhankelijkheid van de zee ontwikkelen. Het zullen uiteindelijk dan ook de Engelsen (en zij die als de Engelsen denken) zijn die de vrijgemaakte maritieme energieën beërven en het idee propageren dat de zee vrij is, dat de zee niemand toebehoort.Dat idee lijkt eerlijk genoeg, de zee is vrij dus van iedereen, niet waar? Maar als de open zee niemand toebehoort, geldt er uiteindelijk het recht van de sterkste. “De landoorlog heeft de tendens naar een open veldslag die beslissend is”, schrijft Schmitt. “In de zeeoorlog kan het natuurlijk ook tot een zeeslag komen, maar zijn kenmerkende middelen en methoden zijn beschieting en blokkade van vijandelijke kusten en confiscatie van vijandige en neutrale handelsschepen [..]. Het ligt in de aard van deze typerende middelen van de zeeoorlog, dat zij zich zowel tegen vechtenden als niet-vechtenden richten.”

En dan maakt Schmitt een cruciaal punt: “[S]inds de Britse inbezitname van de zee raakten de Engelsen en de volkeren die in de ban van Engelse ideeën staan, eraan gewend. De voorstelling dat een landrijk een wereldomspannende macht zou kunnen uitoefenen zou volgens hun wereldbeeld ongehoord en onverdraaglijk zijn.”

Het Britse eilandrijk groeide uit tot een wereldomspannende macht, doordat het voor de zee koos. “Nadat de scheiding van land en zee en de tweespalt der beide elementen eenmaal tot constitutie van de planeet was geworden” ontwikkelde men een hele manier van denken en een internationaal rechtssysteem “waarmee de mensen voor zichzelf de wijsheid en redelijkheid van deze situatie verklaarden, zonder het oerfeit daarvan in het oog te houden: de Britse keuze voor de zee en de tijdsgebondenheid daarvan.” Zodoende kunnen we ons geen ander mondiaal economisch systeem en geen ander internationaal recht meer voorstellen. Daaruit blijkt “dat de grote Leviathan ook macht over de geest en de ziel van de mens heeft”.

Land en zee is rijk aan waardevolle gedachten, maar tegelijk een zeer compact boek, zodat de lezer vooral de tijd moet nemen om de sterk geconcentreerde ideeën die het bevat op zich in te laten werken. Recent is er een Nederlandse vertaling verschenen bij Uitgeverij De Blauwe Tijger, die dit klassieke werk mooi uitgevoerd heeft in een tweetalige editie met op de rechterpagina’s de vertaling en links het originele Duits. Een kleinood voor iedereen die iets wil begrijpen van de wereld waarin wij leven!

N.a.v. Carl Schmitt, Land en zee. Een wereldhistorische beschouwing (Uitgeverij De Blauwe Tijger: Groningen, 2017), vertaling: Henry van Sanderburg, paperback met stofomslag.